Obnubilati dalla versione edulcorata di Walt Disney con scontato happy ending (e vissero tutti felici e contenti), spesso si dimentica che la fiaba scritta da Hans Christian Andersen e pubblicata nel 1836, è in realtà quasi un racconto horror venato di misticismo, con la protagonista pronta a rinunciare a quello che di più prezioso possiede, una voce incantevole, pur di poter andare sulla terra per conquistare il principe che ha salvato durante il naufragio, in modo tale che lui la sposi e la doti di un’anima. Per liberarla della sua coda di pesce la strega del mare non solo le mozza la lingua lasciandola muta, ma le fa anche presente che la trasformazione sarà dolorosissima («bada che ti farà male, ti parrà di sentirti trapassare da una spada») e che le cose non miglioreranno in seguito: «Serberai l’eleganza dell’andatura e la grazia della danza; nessuna danzatrice avrà movenze così leggere: ma ogni passo che farai, sarà come se camminassi su lame acuminate e tutto il tuo sangue dovesse stillare a goccia a goccia». Naturalmente in Andersen non c’è lieto fine, la Sirenetta non conquista il principe e viene “salvata” dalle figlie dell’aria che la accolgono. Lo sanno bene Giacomo Ferraù e Giulia Viana, che nel 2009 hanno fondato la compagnia Eco di fondo, e che utilizzano La Sirenetta per parlare dell’identità sessuale, del sentirsi diversi in un mondo in cui la normalità è qualche cosa di assodato per partito preso, in un periodo estremamente delicato, quello dell’adolescenza, quando è più difficile accettarsi ed essere accettati. Il/la protagonista sente di avere una coda che i genitori non vedono, ma che è la causa del suo isolamento, sempre più marcato. Circondato/a da ombre che si alternano per farlo/a sentire in colpa per la sua diversità, incontra un (piccolo) principe che riempie di colore la sua esistenza, ma dura giusto il tempo di un’estate. Unici compagni della sua solitudine le bambole, ovvero Barbie e Ken, in versione parlante, anche loro alle prese con qualche problema di identità. Forse uscire allo scoperto potrebbe essere la soluzione… O forse no.
Uno spettacolo poetico e toccante, in cui si ride anche molto, ma che pone interrogativi di peso. Ne abbiamo parlato con Giacomo Ferraù, che ha diretto lo spettacolo (avvalendosi della collaborazione registica di Arturo Cirillo), lo ha scritto, insieme a Giulia Viana, e lo interpreta con la Viana, Riccardo Buffonini e Libero Stelluti. Dopo la presentazione al Campo Teatrale di Milano (che lo coproduce, con la collaborazione di Lab121 e il patrocinio di Amnesty International e EveryOneGroup), La Sirenetta è in tournée.
Nello spettacolo la fiaba di Andersen fornisce la struttura per parlare di un argomento di grande attualità: l’identità sessuale degli adolescenti.
Sì, con il gruppo siamo partiti proprio dall’idea di associare la fiaba di Andersen, che da tempo volevamo affrontare, alla questione dell’identità di genere. Facendo delle ricerche ci siamo imbattuti in una lettera condivisa su Facebook di Leelah Alcorn, 17enne dell’Ohio suicidatosi perché voleva cambiare sesso e diventare femmina, ma la famiglia non glielo ha permesso. Da una parte ci è sembrato un atto politico (si suicida perché altri non debbano trovarsi nella condizione di arrivare a tanto) e anche un gesto d’amore verso questa madre che non lo ha capito e che gli dice che «Dio non fa errori». Il lavoro è durato circa un anno e nel frattempo ci sono stati altri casi di adolescenti suicidatisi per lo stesso motivo, non ultimo il ragazzo di Bari, buttatosi sotto il treno perché non accettato dalla famiglia.
Come avete affrontato questa materia così drammatica?
Non ci occupiamo della cronaca, ma fare teatro permette di filtrare le emozioni. Per quanto riguarda la fiaba di Andersen siamo partiti dal cercare di capire cosa rappresentava la coda. Già nella fiaba originale di Andersen c’è un suicidio che corrisponde al rifiuto di accettare una persona così com’è: la sirenetta rinuncia alla sua coda, che è ciò che la rende magica. Lo fa per amore, ma è sconfitta in partenza, perché la coda rappresenta la sua bellezza e la sua unicità. In realtà le code sono tante e quindi, questa volta più di altre, nel preparare lo spettacolo abbiamo discusso in maniera atroce, ponendoci tantissime domande. È stato un dibattito aperto che modificava l’iter di prova e che ha coinvolto tutti, in primo luogo Arturo Cirillo che ci ha fatto da mentore e ci ha guidati in questo lavoro in maniera eccezionale.
E come avete lavorato?
Ci siamo concentrati su questa fase meravigliosa, ma estremamente delicata, che è l’adolescenza, dove tutto è in divenire e dove la sensibilità è acuita dal passaggio, dalla metamorfosi. Ci siamo chiesti: “Dove finirà il bambino interiore?”. È la grande questione dell’accettazione universale, dell’essere compresi e accettati per quello che si è. Parlandone, ci siamo resi conto che ognuno di noi ha una coda e ha sofferto per qualcosa, è un passaggio necessario per accedere all’età adulta. Non volevamo comunque essere giudicanti, non demonizziamo i genitori, semmai la nostra speranza è quella di far vedere lo spettacolo agli adolescenti con accanto i genitori.
Sperando in un lieto fine…
C’è un testo che è stato fondamentale ed è It Gets Better di Dan Savage e Terry Miller del 2010, tradotto in Italia nel 2013 con il titolo Le cose cambiano. Il sottotitolo recita Amori e coming out: più di 100 storie per aiutare a combattere il bullismo e l’omofobia e raccoglie, appunto, le testimonianze di ragazzi e ragazze che ci sono passati e che raccontano le loro storie, tutte a lieto fine, per far vedere che le cose cambiano e migliorano. Sicuramente un’importanza fondamentale ce l’ha la scuola perché il bullismo è molto diffuso e si vede anche nei modi scherzosi di dire, nella quotidianità, che andrebbe sempre tenuta in considerazione perché l’adolescenza è una fase fragile. Il nostro non vuole essere un atto d’accusa, ma semmai vorremmo che lo spettacolo desse un contributo a trasformare la coda in privilegio, facendo capire che è quello che ti rende unico.
C’è anche un grande lavoro dal punto di vista visivo, a tratti cinematografico.
Abbiamo tradotto in immagini la storia e Arturo ci ha guidato e ha supervisionato alcune fasi di lavoro. Il tempo è stato fondamentale e di questo dobbiamo ringraziare Campo Teatrale che ci ha concesso lo spazio, dandoci così la possibilità di poter riscrivere la drammaturgia a mano a mano. La stratificazione dei linguaggi è stata importante e ci ha permesso di arrivare al tempo di maturazione in cui diventa chiaro che non puoi rinunciare al dolore perché, in nuce, contiene la bellezza che poi arriverà. Dal momento che regia, drammaturgia e spazio scenico sono nati insieme, e non a compartimenti stagni, c’è stata una volontà di restituire attraverso le immagini – e attraverso un filtro che è lo schermo – il contenuto stesso dello spettacolo: la materia che crea l’embrione è la stessa che, poi, tende a colorarsi, a lacerarsi e ad apparire a se stessa. Abbiamo lavorato molto sul concetto di epifania a se stessi, sul potersi guardare dentro e vedersi. Il secondo telo riguarda invece il manifestarsi al mondo e il sentirsi esclusi. Lo definiamo un “io lirico” a più voci, dove l’esterno non è mai mostrato (eccezion fatta per la parte riguardante la strega del mare), una sorta di monologo interiore per rendere visibile tutto quello che passa nell’anima.
A proposito di anima, recuperate la fiaba di Andersen in maniera filologica.
Ci tenevamo a mettere le tre fasi della fiaba – quella di mare, di terra e di aria – anche se non tutti le conoscono. E l’aria, che sembra scaturire dall’unione di mare e terra, è rappresentata appunto da questo pulviscolo bianco, il polline di cui parlano i giocattoli. I quali si esprimono con lo stesso stupore di un bambino, è una sorta di ingenuità che lascia il giudizio allo spettatore (mi riferisco al monologo che Barbie fa e che ripropone quello che pensa la società in varie sfumature e accezioni, anche truci, ma ne vien fuori un monologo che fa ridere).
Non siete nuovi a riletture di miti e fiabe per parlare dell’attualità
Una delle cose che accomuna me e Giulia è, da sempre, la volontà di rileggere il mito e la fiaba come metafore dell’attualità. A un certo punto abbiamo proposto a César Brie, con cui avevamo lavorato, di rileggere la storia di Eluana Englaro alla luce del mito di Orfeo ed Euridice. Lui ne è rimasto entusiasta e ha concentrato l’attenzione sull’accanimento terapeutico e sul fatto che ognuno di noi (e infatti nello spettacolo ci chiamavamo con i nostri nomi) si ritrova a essere Orfeo ed Euridice. Il lavoro di César Brie è stato magnifico nel non cercare di spiegare, ma di lasciare le questioni aperte. In O.Z. abbiamo riletto Il mago di Oz come metafora dell’immigrazione. È uno spettacolo per un pubblico di giovani perché quello che loro pensano oggi, è quello che accadrà domani. A noi interessa porre delle domande, non dare delle risposte. Potrebbe essere utopico, ma non ci vedo nulla di male perché ha a che vedere con la natura del sogno e lo spettacolo è proprio questo, come dimostra il fatto che è e rimane solo nella memoria di chi lo ha visto.
Le fotografie dello spettacolo sono di Lorenza Daverio e di Stefano Capra.
Personale Eco di fondo
Milano Teatro Elfo Puccini 6-11 febbraio