Jackson Heights, nel Queens, a New York, è una delle comunità etnicamente e culturalmente più eterogenee degli Stati Uniti e probabilmente del mondo. Ci sono immigrati da ogni paese, Europa, Sud America sono largamente rappresentate ma non mancano nemmeno, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, India, Cina. Questo è il terzo film di Frederick Wiseman che di fatto chiude una trilogia sulle comunità intrecciata ad un prezioso ritratto della vita contemporanea, gli altri sono Aspen e Belfast, Maine.
Esplorare New York
Non ho fatto un film per dare voce ad un gruppo particolare di persone. Mi interessava esplorare quella parte di New York, comprendere quali situzioni e dinamiche si sono instaurate a Jackson Heights fra i gruppi con differente orientamento sessuale, etnia ed estrazione sociale. In generale l’integrazione è un tema che attraversa tutto il mio lavoro. Ciò che accade agli immigrati, sia quelli senza documenti che quelli legali, ai gay, alle lesbiche, ai trans, mi interessa molto perché ci racconta verso dove va una società. Jackson Heights è nata diversa, è un vero e proprio laboratorio. Non so per quale motivo sia diventata un’area che ha raccolto così tante persone da ogni parte del mondo, probabilmente all’inizio gli alloggi erano a basso prezzo e si è abbastanza vicini a Manhattan. Non bisogna dimenticare che è stato uno dei primi luoghi scelti da ebrei, italiani e irlandesi e nel film vediamo i discendenti di quegli immigrati. Lavorare su comunità così numerose fa sì che sia molto più frutto del caso ciò che si trova e ciò che si filma. Per puro caso ero in giro quando la comunità ha deciso di pulire le strade a Jackson Heights. Quando filmi una zona così ti affidi anche al passaparola, alle informazioni in cui ti imbatti.
Cosa filmare
Rispetto molto le persone che si impegnano socialmente, ammiro lo sforzo degli attivisti che a Jackson Heights hanno contrastato le speculazioni dei grndi proprietari immobiliari. Il film è servito anche a portare alla luce il loro egregio lavoro. Il sindaco attuale di New York è a favore dell’impegno di questi attivisti ma si trova sotto pressione da parte di grossi gruppi. Quando lavoro non penso mai alla destinazione, non ha senso interrogarsi sul pubblico che è eterogeneo, viene da educazione ed esperienze differenti, fruirà il film in modo diverso: chi in sala, chi in tv. Faccio già fatica a capire cosa penso io, non ho fantasie sulle reazioni degli altri. In vita mia solo una volta ho spento la macchina da presa. Ero al Metropolitan Hospital nel 1968, un uomo che lavorava nella metropolitana aveva toccato i cavi dell’alta tensione era cosciente ma il sistema nervoso centrale non rispondeva. Ho deciso di non girare quella scena, non perché qualcuno obbiettasse alcunché ma perché non me la sentivo. Penso sia stato un errore, oggi filmerei. Anche se non ho certezze penso che mostrare la foto del bambino siriano annegato sia stato giusto. Gli orrori della guerra e le sue conseguenze vanno sempre mostrati, non credo faccia la differenza, ma almeno testimonia ciò che sta accadendo.
Trump è un clown
Ho scelto Jackson Heights perché è un quartiere che riflette tutto ciò che accade in tutto il mondo occidentale. E poi ero consapevole della grande diversità della popolazione. In molte inquadrature si vedono ispanici di recente immigrazione che vengono trattati molto male, ma ci sono anche delle organizzazioni che cercano di aiutarli. Sono contrario alle generalizzazioni, cerco di vedere ciò che avviene sul terreno. L’America è un paese di immigrati. A Jackson Heights si parlano 167 lingue e gli immigrati del Sud America e dell’Asia vivono e lavorano al fianco dei discendenti degli immigrati del XIX secolo, provenienti dall’Europa centrale e occidentale. Il dibattito in Usa, se così si può chiamare, ora verte sul respingere in modo indiscriminato gli immigrati, ma Trump è un clown, andrebbe bene per una sit-com. Ha speso un miliardo di dollari per la sua campagna ma farebbe meglio a stanziarli per dei documentari.