Diciotto film in 10 anni hanno contribuito a ramificare e consolidare la formula cinematografica dei Marvel Studios, basata non solo sulla celebre continuità delle singole pellicole, ma anche su una serie di dinamiche narrative e tematiche perfettamente identificabili: prima fra tutte l’idea che il nemico, il “Super Cattivo” di turno, altri non sia se non un prodotto degli sbagli compiuti dall’eroe, una componente interiore – debitamente esteriorizzata – che sta lì come un promemoria dei doveri a cui chiamano le responsabilità del super ruolo. Laddove il regista di turno riesce a far fermentare un simile spunto, nascono pellicole più complesse come Iron Man 3, Captain America: The Winter Soldier o Spider-Man Homecoming, capaci di elevare il semplice meccanismo spettacolare a metafora degli errori delle superpotenze, dando forma a un mea culpa ancora più significativo nell’era del terrore globale. In altri casi si può sperare in un autore capace di intrecciare il proprio universo tematico con questi schemi per un’analisi più intimista, ma comunque sfaccettata quel tanto che basta da riverberare in trasparenza anche i dubbi del mondo tutto.
Ryan Coogler rientra in questa seconda categoria e ha già dimostrato di amare le quest di eroi che devono guadagnare il precipitato mitico ereditato con nome e ruolo, ma non assegnato automaticamente: figure e leader che devono dimostrare di essere degni del potere, insomma. Accadeva così al Creed di Michael B. Jordan – qui significativamente trasfigurato in antagonista, quasi a ribadire la continuità – e lo stesso vale per la Pantera Nera di Wakanda, il re T’Challa di Chadwick Boseman, già visto in Captain America: Civil War. Il film ne racconta l’ascesa al trono dopo la morte del padre, ma anche il percorso di acquisizione della consapevolezza di sovrano, che per essere tale deve riuscire anche a capovolgere le certezze consolidate dalla tradizione e a rimediare agli sbagli paterni. Perché tutti, leader o no, al fondo sono degli uomini inclini a commettere errori. La dimensione “istituzionale” dell’eroe-Re iscrive giocoforza il film in una dimensione più grande del solo continente africano, o dell’etnia black, ponendolo nel complesso al di fuori di quell’interessante riflessione sulle questioni razziali che era propria dell’altro eroe nero Marvel per antonomasia, il Luke Cage visto nella serie Netflix. Nondimeno, la natura profondamente personale dei dilemmi che dilaniano T’Challa e lo spingono a dover segnare un punto di rottura con una tradizione paterna pur profondamente amata, cerca di ispessire la problematicità della vicenda, iscrivendo le dinamiche universali in un percorso più intimo. Il che rende Pantera Nera una sorta di alter ego black di Thor: si potrebbe anzi agevolmente affermare che il film di Coogar è il Thor che non abbiamo mai visto, più serio e concentrato sul travaglio di un eroe che pur avendo poteri capaci di elevarlo a una sfera superiore a quella della gente comune, è infine riconducibile a umanissime dinamiche.
E il rovesciamento di prospettiva per cui un minuscolo paese africano è in realtà una superpotenza che deve interrogarsi sull’aiutare i “fratelli” in difficoltà o celarsi per paura dell’avidità altrui è una bellissima metafora di un insegnamento che arriva da quelle realtà comunemente considerate ultime (da cui anche l’inizio e la fine nel ghetto americano). Coogar cerca quindi di portare avanti queste riflessioni che più gli interessano (del film è anche co-sceneggiatore) alternandole con un sense of wonder che sia capace di esaltare la bellezza di ciò che comunemente consideriamo minoritario o marginale nelle dinamiche del mondo. Il che significa tutta la parafernalia di sfarzi e ritrovati tecnologici che rendono il Wakanda una piccola Asgard terrestre. Resta il problema di una forma che, al netto delle problematicità narrative, sia capace di creare anche delle traiettorie visive inedite. Che poi è il grande problema di tanti film dei Marvel Studios, adagiati sulle formule dell’action più consolidato e lontane da ogni possibile fuga realmente visionaria, che possa risultare troppo straniante per il grosso pubblico. Il risultato è un film-monstre di oltre 130 minuti, che però funziona soprattutto nelle dinamiche interpersonali, risultando più statico nel gestire le figure nello spazio, scontornandole in sfondi digitali un po’ posticci e ben lontani dalla fisicità che l’ambientazione richiederebbe. Un esito in bilico, quello di Black Panther, insomma, un po’ come il suo protagonista che ha le potenzialità per diventare grande, ma deve trovare le motivazioni per farlo: da rivedere alla luce di quanto sarà capace realmente di seminare.