La scansione nei colori primari taglia le inquadrature come una lama, affilando il destino dei tre protagonisti di questo noir postcarcerario, distillato da Paul Schrader nell’alambicco di Edward Bunker: Cane mangia cane (il romanzo è in traduzione italiana per Einaudi dal ’99) è la dimostrazione del teorema della predestinazione scritto sulla pelle di tre outsider di mezza taglia, angeli con la faccia sporca sin dagli anni del riformatorio, dove la loro inossidabile amicizia si è forgiata. Troy ha l’aria bastonata e determinata di Nicolas Cage ed è lo spirito guida dell’adunanza di disperazione e voglia di riscatto che tiene insieme il piccolo branco di cani arrabbiati composto assieme a lui da Mad Dog, psicopatico sanguinario, perso nelle droghe e nelle rughe del volto esaltato di Willem Dafoe, e da Diesel, contraltare di pacata amarezza e rabbia, incarnato nella figura corpulenta e potente di Christopher Matthew Cook. Paul Schrader li assume (letteralmente, visto che è il regista a interpretare il losco Greco, che assolda il trio) per questa messa in scena ipertrofica di luoghi comuni della narrazione noir, via crucis nel lato oscuro della vita, fuori dalla grazia di dio e degli uomini, fuori dalla legge. Troy, Mad Dog e Diesel si tengono insieme come una famiglia senza padre, cercando la soluzione per le loro vite nel grande colpo con cui sistemarsi: rapire la figlia di un boss da ridimensionare e con i soldi iniziare tutto daccapo.
Il destino, però, non rispetta il libero arbitrio e la scelta, per questi personaggi dalla sceneggiatura già tutta scritta, è sinonimo di condanna. Schrader sostiene il film con estro visivo più performativo che visionario, spingendolo proprio nella linea di una riscrittura di genere dalla quale non c’è scampo: le pulsioni cromatiche anni ’80 incidono la carne dei personaggi quanto la luce della notte in cui si muovono, sbilanciati sulla scelta di tentare la carta del riscatto (non morale ma esistenziale) senza uscire dal ruolo che si trovano cuciti addosso. Come un Bogart di periferia (ma la periferia cinematografica, quella del noir da studios), Troy condurrà i suoi verso il loro destino, senza lasciare traccia di una possibile alternativa, lui stesso condannato in postfinale a interpretare se stesso in un after life finzionale fuori quota. Così come il suo contraltare Mad Dog, demenziale figura sospesa tra un cartoon di Tex Avery e un goodfella scorsesiano, era nato al film in un incipit lisergico incorniciato nella deformazione televisiva dello scenario domestico, porzione di film che Schrader sembra aver scritto pensando alle sue deviazioni moralmente e filmicamente più ambigue (e meno note), da Touch a Witch Hunt a quell’Auto Focus in cui Dafoe ritrovava Lo spacciatore…Questo è insomma cinema che non lascia scampo al cinema, lo reinterpreta fedelmente per fedelmente tradirlo, ovvero tradurlo nella declinazione ormai sarcasticamente e consapevolmente superata di un postmodernismo già dimenticato. Qui siamo ormai oltre i tradimenti filmici da soap opera della realtà di The Canyon: con Cane mangia cane Paul Schrader disinfetta la ferita dell’immagine infettata dalla realtà contemporanea e la lascia cicatrizzare all’aria aperta dell’immaginario cinematografico più classico: (voler) somigliare a Humphrey Bogart nella realtà ha le sue conseguenze, che si scontano sulla carne viva. Map to the stars…