Non fosse per il periodo disgraziato in cui arriva sugli schermi, lascerebbe il tempo che trova. Ma Greenland viene rilasciato nell’autunno del nostro scontento pandemico e come oggetto in sé ha un valore che inevitabilmente travalica quello, davvero scarso, che avrebbe come film. Un disaster movie fa sempre i conti con il piacere ludico della distruzione, con l’euforia infantile che rade al suolo quella magnifica stanza dei giochi che è il mondo as we know it, e preso lungo questa linea teorica Greenland sarebbe indubbiamente un fallimento: troppo poco carismatico Gerard Butler per generare l’empatia della volontà necessaria a edificare il tempio dell’eroe salvifico, troppo basica la regia di Ric Roman Waugh per creare l’enfasi catartica utile a sciogliere i muscoli dello spettatore, troppo contenuta la furia catastrofica messa in campo rispetto al preponderante corpo narrativo, puntato sul dramma della separazione e riunificazione della famiglia, per innalzare il livello di spettacolarità di un film smaller-than-(the end of)-life. Ma Greenland giunge in un momento in cui siamo tutti protesi verso la paura dell’infinitamente piccolo, introflessi nell’angoscia del killer invisibile e dell’abbraccio impossibile, e allora si merita il bonus di un valore catartico che eccede la sua reale portata e ci manda a casa con quel nuovo equilibrio nelle prospettive della realtà, che poi è la vera mission teorica di ogni disaster movie che si rispetti.
Sì, insomma, pur con tutti i suoi limiti, Greenland alla fin fine è un film che ci riporta a guardare il cielo mentre siamo qui concentrati su una minaccia intracellulare, che restituisce alla paura la magnitudo dell’infinito quando siamo alle prese con un’insidia che si misura in nanometri o micron, che sparge concretissime macerie mentre il contagio conteggia gli infetti, che lancia palle di fuoco dal cielo mentre stiamo qui a misurare i metri che percorrono i droplet… Che poi questa cometa che sputacchia sul nostro pianeta rocce stellari spargendo immane distruzione e biblica ecatombe è a suo, involontario modo una bella metafora di quanto stiamo vivendo: appare dal nulla, inattesa e letale, e fa partire il countdown della fine del mondo. In 48 ore un meteorite di dimensioni adeguate a provocare la catastrofe globale colpirà un punto tra l’Africa del nord e l’Europa (sì, insomma, il Mediterraneo, sempre lui…) e l’umanità farà la fine dei dinosauri. Tutti morti o quasi, si salvano solo gli eletti che, scelti in funzione della loro utilità alla preservazione della specie e della civiltà, hanno ricevuto il messaggio presidenziale e devono recarsi ai punti di raccolta per essere instradati nei bunker sotterranei, segretamente predisposti per la catastrofica evenienza. Gerard Butler e famiglia sono tra questi: lui è un ingegnere edile e sua moglie e suo figlio vanno al seguito, in quello che sarà un viaggio della disperazione, tra palle di fuoco che cadono dal cielo, saccheggi, violenze e l’inevitabile minaccia che gli eletti subiscono da chi vorrebbe prendere il loro posto.
La struttura del film, scritto da Chris Sparling, è del resto costruita tutta sulla contrapposizione tra separazione e riunificazione, a partire dalla crisi familiare che verrà invertita nella fuga verso la salvezza. Ma poi il nucleo centrale del film sta proprio nella separazione dei tre e nella loro riunificazione, prima della salvifica fuga in Groenlandia, via Canada: perché il bambino, diabetico, viene rigettato dal sistema insieme alla madre, che si ritroverà sola, separata dal marito, che a sua volta rischia di essere imbarcato su un altro aereo. Insomma è tutto un dramma in cui ovviamente la catastrofe non viene solo dal cielo, ma anche dall’irrazionalità umana, nella classica dinamica da distaster movie in cui il rapporto tra figura e sfondo varia tra la didascalia dei valori costituiti (famiglia, solidarietà, compassione, condivisione), lo stigma dei disvalori irrazionali (folla, egoismo, sopraffazione) e la tabula rasa dell’edificio sociale (istituzioni, rete, coesione, sostegno). Gli elementi ci sono, il film un po’ meno: ché il disaster climax arriva solo nella volata finale, l’iterazione del dramma della riunificazione occupa troppa parte, gli effetti appaiono un po’ cheap, la catarsi non raggiunge apici adeguati al fabbisogno del momento. Ma va bene così, meglio un Greenland al cinema che un hit Disney confinato nello streaming domestico…