Napoli è diventato il nuovo baricentro del cinema italiano, la riscoperta della città, nella sua oscura o luminosa realtà, è fatto di questi anni e non è avvenuto solo grazie al proliferare di autori e scrittori partenopei, ma a macchia d’olio ha contagiato anche altri autori che hanno trovato tra le pieghe di quei quartieri l’invenzione delle storie che hanno messo in scena. Era arrivato Giovannesi con il suo Hey Joe, di pregevole fattura, ora arriva il quasi puro milanese Salvatores a varcare le soglie di una città già definita dal tedesco Schroeter Il regno di Napoli – a conferma della fenomenologia di una città istintivamente narrativa e testo multi significante in sé – per dare avvio, proprio da quei luoghi ad un film che mette insieme un pezzo di storia del nostro cinema, e non soltanto, con la passione del racconto che è stata da sempre la prerogativa del regista metà lombardo e metà napoletano. Dalle macerie del crollo di un edificio, a causa di un ordigno dell’appena finita Seconda guerra mondiale, fino ad allora inesploso, emerge Celestina (Dea Lanzaro) di otto anni rimasta sola al mondo se non fosse per Carmine (Antonio Guerra) scugnizzo un po’ guappo, ma che sulle cose ci ragiona, segretamente innamorato della piccola e deliziosa Celestina. Sono soli i due ragazzini nella Napoli che sta per essere abbandonata e per una serie di avventure, tra il Sawyer di Twain e una fiaba di Andersen, si ritrovano su una nave passeggeri con destinazione New York. È la realizzazione di un sogno perché Celestina ha sempre desiderato andare a trovare la sorella che vive in America.
Sulla nave Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino) ufficiale italiano, sovrintende a che non si imbarchino clandestini, ma quando scopre i due ragazzini li protegge e li fa sbarcare lontano da Ellis Island. Da qui per Celestina e Carmine inizia una nuova vita. Napoli New York è un nuovo approdo per Salvatores, la realizzazione di un desiderio che riteniamo covasse da tempo, quello di condensare in una storia immagini di un cinema che si sono stratificate nella sua passione cinefila prima che sul versante più prettamente registico, sul suo lavoro in altre parole. Per farlo tira fuori dai cassetti di questa storia del cinema un vecchio e mai realizzato soggetto di Federico Fellini e Tullio Pinelli in quel critico passaggio tra la fine del neorealismo e le nuove strade che avrebbe preso il cinema italiano, al quale, nella giusta misura, ci ha messo mano lo stesso Salvatores. E Salvatores sa utilizzare, da esperto artigiano di un cinema di alta qualità sempre molto personale, le opportunità che il soggetto e la sceneggiatura offrono, per ricreare un ambiente esclusivamente cinematografico nel quale la soglia del reale si confonde con il sogno del cinema e con tocchi inattesi attinge a quella fascinazione in una verticalità sempre vertiginosa, pur sapendo conservare quella personalità cinematografica che gli è propria. Con il ricordo della meraviglia dello sguardo rivediamo nelle immagini della nave che solca l’oceano Atlantico la grandezza abbagliante del Rex e riviviamo le atmosfere di una nave che va. I due bambini, dispersi nella metropoli che alle soglie degli anni ’50 del secolo scorso scopre il cinema italiano, si riscoprono italiani con Paisà e tra C’era una volta in America e il clima italo-americano de Il padrino parte II si svolge l’incontro tra i due protagonisti e la città dai mille colori.
Ma il film non vive soltanto di questa amorevole cura per un cinema che è sempre bello riascoltare nei suoi echi proprio per la capacità che ha avuto di creare icone immortali per ogni compiuta e sintetica descrizione di cosa sia il cinema, ma sa vivere di vita propria e dentro le sue immagini brilla quella stessa vita che illumina gli occhi della bambina e già matura Celestina, alla quale la straordinaria Dea Lanzaro con il suo volto da bambina già adulta, sa conferire una malinconia speranzosa, una spontaneità felice, una vitalità senza remore che eguaglia quella di Antonio Guerra che dà volto a Carmine l’altro giovanissimo protagonista. Un film e un personaggio, quello di Garofalo tagliato su misura, con sapiente opera di sartoria, su Pierfrancesco Favino davvero sempre impeccabile nei ruoli ironici e da nerd cresciuto come lo è il Garofalo del film. Napoli New York dosa elementi della commedia e della saga familiare, dell’epopea delle grandi migrazioni, ricordando la meraviglia della visione della terra con la svettante Statua della Libertà, che resta il mito celebrato di un’idea che sta al fondo di quella imponente statua, qui ripreso in similitudine con una Madonna in un’ennesima interpretazione popolare del suo valore. Lavora su una specie di mito popolare che è quello di un’America salvifica e anche sconosciuta, in quegli echi della gucciniana Amerigo. Il partenope-milanese Salvatores attinge dunque a vari pozzi della sua conoscenza, immette più o meno consapevolmente in questo film i temi della famiglia, italianamente intesa, quel desiderio di restare eterni scugnizzi di una Napoli che vale come ricordo – i lazzari felici di Pino Daniele – con un sguardo appassionato a quella fondativa commedia italiana e che Favino con la sua arte e la sua presenza scenica sa restituire nelle vesti di un padre adottivo vero o mancato. Napoli New York parla la lingua povera del Sud, dei suoi emigrati e rinverdisce i temi di un tragitto tra quell’Italia povera e disperata, ma piena di speranza e l’America e il suo regista dalla sua Milano vicino l’Europa rinverdisce il sogno di Eduardo in Napoletani a Milano di un tram che parta da Piazza Duomo di Milano e senza soste raggiunga le sponde della Posillipo senza tempo.