Storia d’amori fluttuanti, di vite parallele e di intersezioni esistenziali, di silenzi e di parole che feriscono: Love Life di Koji Fukuda (in Concorso a Venezia79) è un film di fughe e di ritorni, una commedia sentimentale nutrita dalle assenze, dalle negazioni: Taeko (Fumino Kimura) è la giovane madre del piccolo Keita, sei anni e una grande passione per il gioco Othello di cui è campione. La vita della donna sta tra il recente matrimonio con Jiro, che ama lei e il bimbo sinceramente, nonostante l’ostilità dei genitori che vedono la donna come uno “scarto”, e la vita interrotta che ha vissuto col primo marito, un coreano sordo e dal carattere fragile, che un giorno è sparito nel nulla senza lasciare tracce. Come nel suo film precedente, Harmonium, premiato al Certain Regard di Cannes 2017, Koji Fukuda basa il dramma di Love Life sul tema del ritorno, sull’innesto di un elemento apparentemente estraneo, ma in realtà scaturito dal passato della protagonista, nel quieto fluire dei sentimenti nella vita quotidiana. Così, quando Keita muore per un incidente domestico, la felicità di Taeko e Jiro si infrange non solo contro il dolore per la perdita del bambino, ma anche per l’inopinato riapparire del padre del piccolo. Il quale, pur senza pretendere nulla da Taeko, rimette in gioco fatalmente il suo passato, tanto quanto il suo presente.
Koji Fukuda lavora sulla tessitura degli eventi, lasciando che il dramma sia alimentato dal progressivo rivelarsi dei sentimenti passati, delle improvvise emozioni presenti e anche delle prospettive future degli amori in corso. Rispetto ad Harmonium, che era concentrato su un nucleo drammatico più preciso, Love Life elabora una struttura a maglie larghe, che coinvolge molte più figure e oscilla tra la leggerezza della commedia e la pregnanza del dramma. La morte del piccolo Keita viene offerta in maniera un po’ meccanica (sin dalla dinamica dell’incidente) alla catarsi sentimentale di Taeko, che deve spingersi in un confronto col primo marito capace di liberarla, anche a costo di perdere il contatto con Jiro. C’è leggerezza nel film, una certa giocosità che rende i personaggi lievi nel loro accettare compromessi e sconfitte. Manca però la tenuta drammatica, la capacità di forgiare il plot in una forma piena e evidente, come accadeva invece in Harmonium: forse è un esito dettato dalla natura stessa dei personaggi, dalla loro adesione poco rigorosa a quegli schemi sociali della cultura giapponese che pure rispettano con precisione, ma che tutto sommato infrangono senza rendersene conto.