C’è una qualità nel concetto di indipendenza applicato al cinema, che fa la differenza ed è cosa piuttosto rara. Quella qualità è la vita. È qualcosa che in realtà nessun filmmaker sa bene come catturare, nel senso che non c’è una strategia funzionale e ancor meno di forma filmica adottata, documentario o finzione che sia. È piuttosto roba di disposizione personale, di atteggiamento verso ciò che si racconta, di cercare persone e non personaggi, momenti e non azioni, attese e non evoluzioni… Non è questione di come usi la macchina da presa, ma di come lasci che la macchina da presa usi te, di quanto sei capace di diventare uno strumento del tuo filmare, del tuo amare ciò che osservi e che vivi attraverso il cinema. Non è niente di particolarmente alto o poetico, in realtà è qualcosa di molto semplice, immediato, funzionale a una empatia narrativa che produce simpatia, cordialità, intuizione e anche intrusione… Tutte qualità che si trovano sempre più nel cinema di Ciro De Caro, nel suo film(am)are immediato, semplice, profondamente vitale, nel suo lavorare in prossimità degli esistenti, lasciando svaporare i loro drammi per cogliere la verità minima delle loro ragioni. Prendete Taxi Monamour, il suo nuovo film, ora in sala dopo la presentazione alle Giornate degli Autori di Venezia 81: è un’opera che insiste su un perno instabile, un personaggio inafferrabile nella sua proterva inconclusione, e trova il suo eccezionale equilibrio proprio nella capacità di oscillare tra la fine e l’inizio, tra l’offerta e il rifiuto, tra l’andare e il restare. Come già nel film precedente di De Caro, Giulia, anche qui Rosa Palasciano (attrice di una bravura clamorosa, oltreché cosceneggiatrice) è l’anima pulsante, lo nutre senza occuparlo, essendone parte integrale ma non esclusiva. Tanto più che qui cerca letteralmente un contrappunto caratteriale in cui perdersi, un’altra sé da amare e affiancare per lasciarsi definire…
Lei è Anna: sappiamo subito che è malata – qualcosa di serio, che le provoca mancamenti e necessita di cure specifiche, che però lei rifiuta, preferendo ignorare e far ignorare il problema. Anna ha un compagno che sta per partire all’estero per lavoro, ma che lei non vuole seguire, e poi ha una madre docilmente pedante e due fratelli, Leo che è un volto noto della tv e Angelo (Valerio Di benedetto), che è il suo preferito, perché condivide le sue inadempienze ai dettami esistenziali…Anna surclassa la sua inconcludenza con una leggerezza dell’esserci che si traduce in libertà: nient’altro che indeterminazione e disinvoltura applicate alla ritmica quotidiana dei doveri e degli affetti. Il risultato è una solarità inflessibile, una dolcezza determinata con la quale piega le resistenze della vita e anche quella di Cristi (Yeva Sai), una ragazza ucraina che incontra una sera a una fermata di un bus di periferia e che è letteralmente la sua controcopia: introflessa, ostica, intransitiva, rifugge il contatto e eviterebbe di avere a che fare con lei se solo sapesse come non accettare la sua gentilezza e ignorarne i sorrisi. Cristi accudisce una anziana donna malata (quasi fosse la continuazione di Giulia nel film precedente di De Caro…), ma è sempre più decisa a tornare nel suo paese, nonostante la guerra persistente e i consigli della zia che la ospita e che le avrebbe pure trovato un ambito lavoro in Italia.
Su questo doppio corpo Ciro De Caro costruisce un film che si spinge in una flagranza di vita immediata, che assume il contrappunto caratteriale delle due protagoniste e lo trasforma nella ricerca di una empatia in grado di definire una linea narrativa. È come se Taxi Monamour prendesse un unico personaggio e lo sdoppiasse in chiave oppositiva per creare una storia d’amore che unisce ciò che è contrapposto. Anna si impone a Cristi attratta dalla sua ritrosia, cerca la sua estraneità alla vita che sta vivendo per rispecchiarsi in essa senza perdersi, ma anzi per ritrovarsi. Il tema del transitare corrisponde a quello dell’affidarsi e insiste sull’idea di creare una relazione tra vite differenti, opposte eppure coesistenti: dare/accettare un passaggio in auto, che è il “luogo” narrativo del film e struttura precisamente il trovarsi delle due protagoniste, è la configurazione di questo concetto. L’immediatezza che Ciro De Caro ottiene è frutto di un affiancamento esistenziale alla flagranza dei suoi personaggi che non ha nulla di strutturale, nasce dalla ricerca di un dialogo narrativo tra luoghi e figure dell’esistere: Taxi Monamour, che forse è meno definito e potente di Giulia, ma è anche più libero e pulsionale, insiste sulla medesima idea di un personaggio, quello di Rosa Palasciano, che si impone alla vita altrui per definirla e, al contempo, per definire la propria. La sua qualità è esattamente quella di affiancare la vita, trovarla e definirla che fa del cinema qualcosa di vero.