Può un titolo infelice determinare la ricezione di un film? Leggendo le critiche piovute addosso all’ultimo lavoro di Walter Hill (The Assignment) sembra proprio di sì, tanto che lo stesso regista e la protagonista Michelle Rodriguez hanno preso posizione al riguardo, affermando il loro desiderio di tornare all’originale, Tomboy. “E’ un film d’azione non un’opera che affronta il transgender da una prospettiva psicologica o sociale”, ha affermato l’attrice che nel film veste i panni di un barbuto killer prima di diventare una altrettanto spietata versione femminile. Michelle Rodriguez impersona Frank Kitchen, il misterioso uomo a cui, per una crudele vendetta, viene imposto il cambiamento di sesso. L’altra protagonista è una mascolina e glaciale Sigourney Weaver, una dottoressa imprigionata in un ospedale psichiatrico. Le due – entrambe recluse in corpi reali e sociali non loro – sono i poli di un film che contrappone la pura azione alla macchinazione più perversa, le pistole ai bisturi.
Anche come stile il film cerca arditi accostamenti: la cornice sembra provenire da un b-movie degli anni Cinquanta. L’ospedale psichiatrico e il racconto del carcerato che procede per flashback, sempre più liberi, portano diritti al noir come al luogo in cui la faccia oscura della psiche umana si palesa. Il percorso di vendetta portato avanti da Michelle Rodriguez è invece un puro action-movie post-moderno con quel misto di violenza gratuita, inverosimiglianza, ironia che lo caratterizza. A sottolineare quest’aspetto – come se il rischio di realismo fosse nell’aria – il regista ha cristallizzato i volti dei personaggi in inquadrature che li avvicinano a figure della comic-novel. Ciò nonostante la maggior parte delle critiche anglofone hanno vomitato commenti sprezzanti, denigrandone la qualità, ma in fin dei conti confondendo ancora una volta l’immagine per la realtà. L’attacco al film rivela infatti come certe tematiche (il gender) non siano ancora accettate e per questo necessitano di una protezione speciale, che a volte rischia di sfiorare la censura. Todd McCarthy, nella sua positiva review su Hollywood Reporter – tra le poche che si sono spinte oltre il puro guidizio- afferma che Hill si appropria delle convenzioni del genere per proposte provocatorie e non trasgressive: certo chiamare il personaggio Frank (in onore a Miller, penso) Kitchen (come il luogo dove le donne devono/dovrebbero stare) può far pensare a una posizione reazionaria; in realtà tutto il film – come tutta l’opera di Hill – è attraversata da un’ironia che non risparmia lo stesso regista. Su una storia leggera e inconsistente, che però rivela come l’uomo sia “homini lupis”, un animale destinato alla sua stessa rovina, Hill arriva a mettere in discussione quell’universo che egli stesso ha composto film dopo film. Offrire i panni del narratore a un personaggio come quello della dottoressa Rachel Kay (una Sigourney Weaver davvero straordinaria) è come dare le chiavi di casa al proprio peggior nemico. Con il suo intellettualismo e la sua mania di controllo, la dottoressa Kay rappresenta ciò che i film di Hill hanno sempre rifiutato. Leggi: la volontà di dirigere la natura umana, il pensiero che una donna sia per forza di cose gentile e migliore di un uomo, il fatto che si possa bandire la violenza dalla città. Ma tutto è questo è forse troppo primordiale per essere accolto nel XXI secolo.