Scegliere la vita: Sotto il cielo grigio di Mara Tamkovich

Mara Tamkovich
Bielorussia. Una giornalista viene arrestata dopo un servizio in presa diretta segreto sulla repressione di manifestanti pacifici. Il marito la sostiene mentre il regime cerca di spezzarla. In concorso al 42. Torino Film Festival, prodotto da Katarzyna Ocioszyńska e distribuito da Invisible Carpet, Sotto il cielo grigio è firmato da Mara Tamkovich, regista e sceneggiatrice qui al suo lungometraggio di esordio. Nata in Bielorussia, studia giornalismo e regia cinematografica e per quasi dieci anni lavora come giornalista per la TV e la Radio bielorussa indipendente trasmettendo dall’estero informazioni senza censure ai bielorussi; la sua idea di cinema traduce questa prorompente passione civile, riflesso di una condizione umana da custodire e coltivare, mai fine a se stessa ma rivolta a un bene più grande. Il film prende ispirazione dalla storia di Katsiaryna Andreyeva di Belsat TV, che ancora sta scontando la sua pena accusata di tradimento. Sono sempre meno frequenti operazioni come questa di Sotto il cielo grigio ma sempre più necessarie per comprendere il mondo di oggi, le sue contraddizioni e le sue complessità. Se la narrazione che i media restituiscono del mondo appare così esposta alla fragilità e precarietà della verità, tra incertezze, sfiducia, sconforto, in cui corruzione e rassegnazione sembrano averla vinta, come fare a convivere con i propri principi? Se da una parte il film di Tamkovich ha la lucidità di chiedersi quanto sia ancora possibile affidarsi alla narrazione dei fatti per mano dei professionisti del settore, non di meno dall’altra parte è un film che confida nel fatto che l’uomo di oggi possa ancora credere di vivere un’esistenza autentica e piena, capace di scoprire che essa non ha in sé il proprio centro e punto di equilibrio ma l’ha fuori di sé, in qualcosa o qualcuno di altro.

 

 

E così, seguendo uno sviluppo incalzante e aumentando l’intensità della tensione emotiva al punto da sfociare in un angosciante thriller politico, Mara Tamkovich conduce lo spettatore di fronte ad una delle domande più drammatiche: cosa può salvarci dalle sabbie mobili dell’ingiustizia, voragine infernale che ci risucchia inesorabilmente? Coraggiosa regista dallo sguardo fine, Tamkovich mette in scena un dramma costruito intorno a un nucleo narrativo denso e aggrovigliato in cui sembra emergere come verità la vittoria della menzogna, della calunnia, dell’opportunismo a scapito dell’altro. Biblicamente riaffiorano le parole del profeta Geremia: «Angheria su angheria, inganno su inganno. Saetta micidiale è la loro lingua, inganno le parole della loro bocca. Ognuno parla di pace con il prossimo, ma nell’intimo gli ordisce un tranello» (Ger 9, 2-4.7). E infatti, le parole del profeta risuonano nel cuore del film di Mara Tamkovich rivolto a osservare e scandagliare nel profondo la matrice delle relazioni sociali in cui l’uomo è immerso. Perché in questa operazione, nonostante il cielo grigio, lo sguardo dell’uomo è sempre rivolto ad un appello a scegliere la vita e la via della giustizia, sprofondato in una domanda esistenziale e alla ricerca di qualcosa di stabile per dare senso alla sghemba, aggrovigliata e scandalosa vicenda umana.

 

 

Da dimensione particolare la vicenda di Lena e Ilya (siamo nel 2020 e il tentativo della giornalista è di raccontare la rivolta di piazza contro il regime di Lukaschenko mentre il marito, direttore della testata per cui lavora, assisterà inerme alla sua odissea), praticamente tutta costruita in interni soffocanti e stringenti, con rarissimi movimenti della macchina da presa, dove le assenze risultano più espressive delle presenze mentre dialogano con un architettura dell’umano tutta da risolvere, si trasforma in universale perché capace di raccontare un desiderio profondo che confida in una liberazione e in una salvezza. Esiste ancora un cinema di impegno civile, in grado di graffiare e suggerire più che esplicitare, che sceglie di non tacere di fronte all’ingiustizia, ancora assetato di verità? Evidentemente rimane pertinente ogni riferimento alla sconvolgente visione di Green border di Agnieszka Holland ma questo non fa altro che rilanciare una riflessione sul senso della libertà al giorno d’oggi: le due caratteristiche fondamentali su cui si poggia la vita comunitaria degli esseri umani – buone intenzioni e affidabilità – non esistono più come si intendevano un tempo, sono scomparse al punto che la vita comunitaria è privata di fondamento. Ma la verità umana esige un di più, e questo è ciò che il film consegna ai suoi spettatori perché capace di catturare l’istante della visione nel segreto del cuore di marito e moglie. Una temerarietà inaudita, sconcertante ma dolcissima che spinge ad essere fedeli alla verità. Sotto il cielo grigio è un pugno che riempie il vuoto dei silenzi e cerca di restituire senso alla dignità di persone che lottano contro ogni ambiguità.