Il “vecchio” Walter Hill celebra il Premio Cartier – Glory To Filmaker, assegnatogli a Venezia 79, aggiungendo un western alla sua filmografia disomogenea, composta da 21 film e nobilitata da alcune pagine memorabili (L’eroe della strada, I guerrieri della notte, The Driver, 48 ore, Strade di fuoco). Morto per un dollaro è un’incursione nel genere decisamente meno epica delle precedenti (I cavalieri dalle lunghe ombre, Geronimo, Wild Bill), in buona parte rispettosa della tradizione del western classico, di cui espande però i confini: lo confermano la varietà nel mood dei duelli e degli scontri a fuoco; la presenza di una figura femminile articolata e dei buffalo soldiers; l’ambientazione quasi interamente messicana della vicenda; la contraddittorietà consapevole di situazioni che non vogliono congelare il racconto in un’altra epoca, ammiccando invece all’oggi. Tutto inizia nel 1897 a Santa Fe, in New Mexico, dove il cacciatore di taglie di origine europea Max Borlund (Christoph Waltz) riceve da un uomo d’affari l’incarico di liberare la moglie Rachel (Rachel Brosnahan), rapita da un disertore afroamericano e condotta oltre frontiera, nelle lande desolate del Chihuahua. Affiancato da un sergente dell’esercito, egli pure di colore, Max va dritto all’obiettivo, incontrando parecchi ostacoli sulla sua strada, dal tiranno locale (Benjamin Bratt) che ama farsi annunciare da un avvocato indio dalle maniere forbite, al nemico giurato Joe Cribbens (Willem Dafoe), che non ha la fregola di andarlo a cercare ma se lo ritrova tra i piedi e allora pensa che sia l’occasione giusta per chiudere i conti.
La cosa più fastidiosa, per uno che ama regole e le cose chiare come Borlund, è tuttavia un’altra: che gli hanno raccontato un mucchio di frottole. Hill ha adattato una sceneggiatura originale di Matt Harris, ma la trama evidenzia non pochi punti di contatto con quella de I professionisti, diretto nel 1966 da Richard Brooks, in cui una formidabile pattuglia assoldata dal marito Ralph Bellamy e formata da Lee Marvin, Burt Lancaster, Robert Ryan e Woody Stroode, si metteva sulle tracce del rivoluzionario messicano Jack Palance, che aveva rapito nientemeno che Claudia Cardinale. In Dead for a Dollar cambiano in verità sviluppi e psicologia dei personaggi, sebbene la questione del plagio sia lontana dalla forma mentis di Hill, che ha ricordato – nella conferenza stampa veneziana di presentazione del lavoro – come storie nuove non se ne trovino più. E che probabilmente aveva ragione Borges “per il quale ne esistevano soltanto quattro tipi: città sotto assedio, ritorno alla Ulisse, caccia insensata alla Achab con Moby Dick, sacrificio di un dio”, e che dunque “l’unica via d’uscita, per un cineasta, è cercare una nuova maniera di raccontarle”. In effetti il richiamo esplicito all’Iliade (Rachel come Elena) si combina con parecchi rimandi ai western di Leone (quantomeno nelle musiche “morriconiane” e nell’umorismo di fondo, oltre che nel titolo) e di Budd Boetticher (che riceve una dedica prima dei titoli di coda), laddove in passato erano costanti quelli agli stilemi del suo maestro Sam Peckinpah.
Ma anche su quest’ultimo, l’ottantenne Walter si concede una precisazione: “In principio dicevano che copiavo da lui (per il quale sceneggiò Getaway, ndr). Ma, a ben guardare, Peckinpah fu influenzato da Kurosawa, Kurosawa da John Ford, Ford da David Wark Griffith e Griffith dai romanzi di Dickens”. Di epico resiste il personaggio di Max Borlund, a quanto pare incentrato sulla figura reale di un soldato danese che, emigrato negli States, fece fortuna all’Ovest come bounty killer. Di certo Waltz lo costruisce sulla falsariga del “suo” dottor King Schultz, come immaginato da Tarantino in Django Unchained, con alcune variazioni essenziali: gli sottrae infatti molto in follia ed eloquenza e quasi altrettanto in saccenza, conservandone per contro il senso dell’onore. Ciò detto, pur con tutto l’amore per Walter Hill, impossibile negare che il film evidenzi in pieno i limiti di una produzione a basso costo; mette comunque in mostra paesaggi fantastici ripresi con respiro arioso, una discreta fotografia che rincorre i toni gialli della sabbia e della luce, la nostalgia per un’idea mitica dell’Ovest, trasmettendo infine l’impressione che l’autore si sia divertito non poco a girarlo.