Quando Alice Howland si accorge che qualcosa non funziona nei meccanismi che collegano memoria e linguaggio, quando si ritrova smarrita in un luogo a lei famigliare, capisce che il problema è più profondo e avrà conseguenze impossibili da arrestare.
L’inizio di Still Alice, quarto film di Richard Glazer e Wash Westmoreland, è secco: una serie di informazioni limitate ma sufficienti a dare il peso di un microcosmo che si va definendo con poche parole. L’inizio di una malattia come l’alzheimer – devono aver pensato i registi – si manifesta senza preamboli e senza intermediari. Arriva direttamente a colpire la consapevolezza di chi ne soffre e si fa carico di portarla lontano dalla persona che è sempre stata. E così, senza prologhi, né presentazioni di sorta, questo film inizia “a un certo punto” a seguire la vita della sua protagonista, senza procedere attraverso un percorso necessario, ma saltando i tempi per concentrarsi solo sui fatti: la progressiva perdita di sé, che non riguarda solo la memoria, ma l’impoverimento che nasce da dentro e la travolge come un’onda.
Sono delicati e severi al tempo stesso Glazer e Westmoreland nel maneggiare un tema tanto instabile e precario. Sono dettagliati nel descrivere e lievi nel tono con cui si avvicinano ai protagonisti. Come leggere i diari personali di ognuno, sapendo usare con sensibilità i segreti. E le parole e i gesti seguono di conseguenza queste regole. Misurate, essenziali, le prime, quanto impercettibili ma energici i secondi. Si procede per azioni e reazioni, avvicinamenti progressivi, tentativi incompresi o solo pleonastici. Come quando Alice, senza saperlo, trova nel suo computer il video di se stessa che si da istruzioni su come morire e porre fine a tutto. Insuccesso rassicurante, preannunciato, peraltro, da una certa velocità di montaggio, insolita ma coerente con il senso di ciò che viene narrato. Perché questo film asseconda la materia tanto fragile attorno a cui ruota la storia, e, soprattutto, la rende quotidiana, sfuggendo al dramma, al rimpianto, alla facile serie di sentimenti da mettere in fila. Rassicurante e struggente, senza mai arrivare alle estreme coseguenze, un percorso netto sul filo dell’equilibrio che resta legato al discorso. Non è solo il procedere della malattia ad interessare qui, ma anche le dinamiche della comunicazione verbale e fisica tra gli individui coinvolti, l’altalenante gioco di avvicinamenti e allontanamenti, che solo il cinema sa esaltare e colmare di significati.
Still Alice è un film intimo e riservato, che rende visibili quelle che possono essere le innumerevoli implicazioni di ogni perdita. Perdere contro con un rivale, perdersi in un labirinto interiore, perdere l’inafferrabile. Non è solo smarrire la strada o dimenticare una parola, ma anche lasciare a metà un cammino iniziato. Sparire dalla propria mente e dai pensieri di chi ci sta di fronte. Un gioco di corrispondenze. Campo e controcampo che, all’improvviso, saltano un passaggio, mandando in frantumi le logiche della comunicazione e del linguaggio.