È una città di muri, grate e barriere quella in cui si muove Ana (Snežana Bogdanović) che di notte non dorme e di giorno si aggira come uno zombie in una Belgrado respingente. Osserva, pedina, vede presenze, cerca delle risposte, apre la sua bottega di sarta, in un angolo deserto della città, cuce ma è tormentata. A casa ha un pessimo rapporto con la figlia Ivana che a fatica le risponde, mentre il marito Jovan, guardia notturna che torna quando lei esce per andare al lavoro, cerca di capirla ma non sempre ci riesce. La vita di Ana sembra fatta di piccoli rituali: spostare un soprammobile prima di uscire di casa, puntare gli spilli sugli abiti, seguire l’ago della macchina da cucire che percorre la sua strada punto dopo punto, ma soprattutto continuare a fare domande, anche solo con la sua presenza scomoda. Il tormento di Ana dura da molti anni e ciclicamente si ripresenta. In passato è stata ricoverata in clinica e l’internamento continua a proporsi come minaccia nelle parole dell’ispettore della polizia del posto. Le domande poste da Ana sono scomode per molte persone: dottori, poliziotti, ispettori comunali perché la donna vuole sapere dove è stato sepolto il figlio Stefan che diciotto anni prima le è stato sottratto appena nato. Nonostante sia sola in questa battaglia (il marito la accompagna al commissariato per chiudere il caso, la cognata Marija non vuole più ascoltarla, Ivana le rimprovera di essersi occupata per tutta la vita solo del figlio morto), Ana vuole sapere cosa ne è stato del corpo e si rifiuta di smettere di cercare. Grazie all’associazione bambini scomparsi che le fornisce il nominativo di un’impiegata del comune che può darle una mano, Ana troverà finalmente quello che cerca: la verità. Una verità non facile da accettare per nessuno dei protagonisti in gioco, ma che permette a Ana di ritrovarsi facendo finalmente ammenda per il suo enorme senso di colpa.
Gli ambienti ben restituiscono l’oppressione di un sistema di controllo generalizzato: strade poco o mal frequentate, uffici comunali che sembrano prigioni in cui si deve stare attenti a quel che si dice, forze dell’ordine intimidatorie, medici che nascondono segreti terribili. Una rete di connessioni che punta ad annientare l’individuo («L’ultima volta è finita in psichiatria, se non la finisce dovrò chiamare la polizia», è la minaccia della dottoressa), cambiando le carte in tavola («Ho nuove informazioni», esordisce il commissario di polizia che ha sostituito il precedente per poi tirare fuori dal fascicolo una soluzione di comodo: «L’avete dato in adozione, erano tempi duri» e pretende di farla accettare ad Ana con un’altra minaccia: «La lascio andare per questa volta, ma in futuro non potrò fare più nulla»). Stitches – Un legame privato, opera seconda di Miroslav Terzić, è ispirato alla storia vera di Drinka Radonjic, ed è stato scritto da Elma Tataragić, già sceneggiatrice di Dio è donna e si chiama Petrunya. Vincitore dell’Europa Cinema Label alla 69a Berlinale, è un dramma costruito come un thriller con al centro una nuova Penelope che contro tutti e tutto continua a tessere la sua tela (i punti del titolo fanno riferimento alla sua attività di sarta che cuce per ristabilire dei legami), convinta di poter trovare il bandolo della matassa. Grazie anche all’intensa e sempre misurata interpretazione della protagonista, il film riesce ad affrontare in maniera rigorosa un tema spinoso che avrebbe potuto scadere facilmente in una banalizzazione drammatica e nella seconda parte ribalta le coordinate facendo sì che chi pedina viene pedinato, operando anche un interessante cambio del punto di vista quasi a voler segnare un nuovo inizio. E questo nonostante la didascalia su cui si chiude il film non lasci spazio alla speranza: «Ancora oggi in Serbia oltre 500 famiglie sono alla ricerca dei propri bambini scomparsi. Quando questo film è stato girato, nessun caso era ancora stato risolto». Con la sua denuncia Stitches riporta all’attenzione la questione dei “nestale bebe” (i bambini scomparsi) per cui si è espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ma su cui Belgrado non ha mai fatto chiarezza preferendo risarcire economicamente le famiglie e suscitando per questo altre proteste.