Il mondo è sommerso, una grande onda ha coperto le terre emerse e la linea dell’orizzonte combacia con il pelo d’acqua: l’apocalittica visione è il setting in cui il lettone Gints Zilbalodis colloca Flow, suo secondo lungometraggio animato, che segue di cinque anni l’exploit di Away, riproducendone in chiave liquida e in tutti i sensi più fluida il rapporto spiritualmente interlocutorio che instaura tra le azioni che animano i suoi protagonisti e l’ambiente in cui si compiono. Se nel precedente film c’era un ragazzo che si paracadutava su un’isola deserta e, accompagnato da un piccolo uccello, la attraversava a bordo di una moto, cercando di sfuggire a un moloch in grado di rubare la vita a ogni creatura, in Flow in qualche modo le prospettive si invertono, ma resta invariato il rapporto tra il protagonista, che qui è un piccolo gatto nero, e lo scenario naturale in cui si muove, tentando di sfuggire a una costante minaccia. Elaborando un mondo astratto, sospeso su una dimensione esotica e selvatica immersa in tonalità che stanno tra il verde della vegetazione dilagante e l’azzurro dell’acqua che tutto sommerge, Gints Zilbalodi azzera la presenza umana (accennata solo nella casa abbandonata mostrata all’inizio) e si affida a una narrazione ancora una volta priva di dialoghi parlati, in cui è l’interazione psicologica e la struttura caratteriale degli animali in campo a creare l’intreccio.
Gli eventi sono basici, quasi azzerati nella loro definizione, che lascia presupporre un evento (di origine umana, naturale o magari anche soprannaturale non è dato sapere…) che ha provocato la scomparsa dell’uomo e uno tsunami catastrofico che ha sommerso ogni cosa. In questo scenario, il piccolo gatto diventa l’eroe involontario di un’avventura che lo vede unito a un lemure, un labrador, un capibarra e un serpentario, uniti al di là delle differenze di specie e carattere dalla necessità di salvarsi a bordo del relitto di una barca, sulla quale attraversano le acque in tempesta. La diffidenza naturale è superata dalla solidarietà, l’egoismo dall’intelligenza, la contrapposizione dal bisogno di rimanere uniti per salvarsi. La lezione immediata di Flow è chiara e semplice, ma ciò che resta principalmente nel film di Zilbalodis è la capacità di elaborare uno scenario in cui è la fluidità del rapporto tra natura e individui (animali) a sviluppare una dinamica emotiva sincera. L’ovvia assenza di parola determina il venir meno della dimensione introspettiva e lascia emergere la concretezza immediata del rapporto tra le azioni e le reazioni che animano la piccola gang di animali in rapporto a una natura che sovrasta con indifferenza le loro esistenze, producendo morte e distruzione, vita e salvezza al di là di ogni possibile determinazione.
Utilizzato un’animazione più limpida e realistica nell’elaborazione degli sfondi e degli elementi naturali, su cui applica un tratto più grafico e disegnato per le figure, il regista riproduce lo schema di Away, eliminando però anche la presenta arcaicamente astratta del moloch e lasciando che in Flow tutto risponda a una ragione misteriosa che accomuna gli esistenti in balia della vita. Un paio di citazioni spielberghiane (la casa col letto ai piedi del lucernario che richiama L’impero del sole e la montagna su cui si ritrovano il gatto e il serpentario che rimanda a Incontri ravvicinati del terzo tipo) sembrano voler evocare a un rapporto classicheggiante col dramma dell’individuo qualunque posto dinnanzi a eventi straordinari. E Gints Zilbalodis ha il senso della meraviglia adatto a sviluppare una simile poetica in chiave animata.