A Torino lo sguardo visionario e politico di Haile Gerima

Child of Resistance (1972)

Si chiama Visioni del rimosso ed è la prima personale completa di Haile Gerima organizzata in Italia. Dal 24 al 29 maggio al cinema Massimo di Torino si potrà vedere l’integrale del regista etiope il quale sarà presente nel capoluogo piemontese per introdurre alcuni film e partecipare (il 26 maggio nella sala conferenze del Polo del ‘900) a una tavola rotonda al termine della proiezione del work in progress di Black Lions, Roman Wolves/The Children of Adwa, ovvero la prima ora del film cui Gerima sta lavorando, un progetto che lo sta impegnando da decenni e che dovrà rappresentare il “controcampo” del suo Adua dando voce alla risposta del popolo etiope all’occupazione fascista degli anni Trenta. L’occasione della retrospettiva (curata da Daniela Ricci, seconda tappa del progetto dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza Visioni del rimosso. Lo sguardo cinematografico sul colonialismo italiano organizzata con la collaborazione del Museo Nazionale del Cinema) è utile per “ripassare” l’opera di uno dei massimi cineasti africani e african-american. Esponente di punta del cinema della diaspora, nato a Gondor nel 1946, emigrato negli Stati Uniti nel 1967, insegnante di cinema alla Howard University di Washington, Gerima è autore, nel corso di una filmografia lunga oltre cinquant’anni, di un numero relativamente ristretto di testi, ma tutti imprescindibili per il loro peso sia filmico sia politico. Film immersi in una militanza appassionata e realizzati sia in Etiopia sia in diversi luoghi degli Stati Uniti.

 

Bush Mama (1976)

 

Per elaborare, sempre, un dialogo aperto e conflittuale con la Storia a contatto con la memoria, il viaggio, lo spazio e il tempo da scardinare nella sua cronologia, in un andare e tornare dall’Africa e in una struttura filmica che accoglie la finzione e il documentario e esplora il tempo fin nelle sue pieghe più laceranti. Cinema visionario e politico, quello di Gerima, che si mette in viaggio per confrontarsi sia con la memoria di un popolo (quello africano di un intero continente, e più estesamente quello african-american) sia con quella del cinema. Prima di esordire dietro la macchina da presa e di trasferirsi negli Stati Uniti, da giovane Gerima lavora in teatro nella compagnia drammatica del padre che rappresenta opere inedite e spesso storiche basate sulle radici culturali dell’Etiopia. Un’esperienza che non gli rimarrà estranea quando avvierà la sua carriera di regista, cominciandola in Usa agli albori degli anni Settanta. I primi lavori evidenziano infatti una dimensione “teatrale”, luoghi chiusi (prigioni, appartamenti, corridoi) dove i personaggi urlano la loro angoscia. Ecco, veri e propri fulmini che scuotono gli occhi e le coscienze, Hour glass (1971, cortometraggio in Super8, protagonista un giocatore di basket afro-americano), Child of Resistance (1972, mediometraggio in 16mm, ritratto di una donna e della sua trasformazione, che negli anni Sessanta si unisce al Black Power per combattere per la giustizia sociale), Bush Mama (1976, primo lungometraggio, sguardo sull’America nera urbana e su Dorothy che a Watts lotta per crescere la figlia in un ambiente di povertà). Un trittico, rivoluzionario e d’avanguardia, che documenta, nella sperimentazione che urla l’alienazione, il periodo del Black Power, l’orrore delle detenzioni, l’erranza per le strade in un desiderio di rivolta che esplode e implode.

 

Mirt-Sost-Shi-Amit-–Il-raccolto-dei-tremila-anni (1976)

 

Gerima è da subito dentro la realtà afro-americana per disegnare un cinema “di denuncia” fuori dagli schemi, che non cerca mediazioni, che vuole urtare e “fare male”. Cinema che sa di rappresentazione e di performance nel raccontare fatti della cronaca, un’attualità da trasformare in epopea – in questi primi lavori e poi nei kolossal successivi. Andare e tornare. Il 1976 è un anno importante per Gerima. Realizza anche il suo primo film etiope, Mirt-Sost-Shi-Amit – Il raccolto dei tremila anni, uno dei suoi capolavori, ampio, epico e durissimo affresco di vita contadina nell’Etiopia contemporanea. In un bianconero di grande realismo, Gerima filma la rivolta di un contadino contro la schiavitù imposta dal regime e, nello specifico, dallo spietato latifondista che tiranneggia la popolazione. Ogni inquadratura si espone alla durata, diventa gesto filmico denso di fisicità da portare allo sfinimento per testimoniare la fatica, il dolore, la sofferenza di un popolo. E sempre del 1976 è Wilmington 10-Usa 10000, documentario per un viaggio nel razzismo e nel sistema della giustizia penale: si analizza il caso dell’incarcerazione ingiusta dei dieci di Wilmington, nove uomini african-american e una donna bianca che, in Carolina del Sud, osarono denunciare la repressione politica e razziale. Il rimosso riemerge sempre, in Gerima. Che in Ashes and Embers (1982) porta in primo piano il nero Ned Charles, veterano della guerra del Vietnam il quale vive profonde trasformazioni al suo rientro nella società, un allucinato percorso autodistruttivo che la nonna, la compagna Liza Jane e l’amico Jim cercano di contrastare. Negli anni Ottanta Gerima firmerà solo un altro testo, il mediometraggio After winter: Sterling Brown (1985), produzione della Howard University sull’opera del poeta Sterling Brown.

 

Teza (2008)

 

Gli anni Novanta si aprono con il melodramma politico esplosivo Sankofa (1993), in cui dai giorni nostri una giovane modella afro-americana si trova scaraventata nel passato schiavista. L’epopea di questa donna è raccontata con stile epico e sperimentale facendo ricorso a una struttura narrativa quasi seriale, al cui interno si identificano personaggi troppo buoni/troppo cattivi, straordinarie scene madri, raccordi fluidi di attesa. In Sankofa si manifesta un’estetica geometrica e visionaria, aperta alle contaminazioni musicali e all’incontro con le forme più rivoluzionarie dell’immaginario fantastico/realistico contemporaneo. E proseguono con i documentari Imperfect Journey (1994), realizzato per la televisione, sguardo personale sull’Etiopia dopo la caduta del regime di Haile Selassie, e il già ricordato Adua (1999), sul colonialismo italiano, intricato eppur fluidissimo percorso nella memoria, dove coesistono e lottano materiali di ieri e di oggi. Dipinti, fotografie, pagine di libri si incastrano con i volti, le parole e i canti dei discendenti delle persone che combatterono la battaglia di Adua del 1896, per un viaggio nelle soggettività degli esseri umani e nelle oggettività dei luoghi ritrovati e filmati a distanza di cento anni. Passano quasi dieci anni prima che Gerima torni a fare un film. E il suo ritorno costituisce un ulteriore capitolo della sua ricerca storica. Si tratta di Teza (che significa rugiada, 2008), viaggio, soggettivo e non cronologico, e senza didascalie, senza capitoli che semplifichino il percorso, nella storia dell’Etiopia, questa volta compiuto ricorrendo a una solida struttura di finzione dalla quale fare emergere fatti, episodi, lotte per l’emancipazione di un popolo dalle dittature e repressioni che subì. Una “scheggia” di mezz’ora è invece The Maroons (work in progress), del 2018, sui “maroons”, gli schiavi fuggiaschi che crearono le loro comunità indipendenti negli Stati Uniti. E un flash, come tutti quelli che compongono questo progetto della Mostra del cinema, è rappresentato dal suo contributo al film collettivo Venice 70: Future Reloaded (2013).

 

Sankofa (1993)

 

“Del cinema mi interessa la possibilità di farne uno strumento di discussione e comunicazione; mi interessa il suo sviluppo estetico. Dunque, non faccio solamente un film, ma allo stesso tempo ne metto anche alla prova la struttura, la conformazione e la forma”. (Haile Gerima)