L’afrofuturismo non è più una novità. Dagli anni settanta in poi, una nutrita schiera di artisti africani e afroamericani che va dal musicista Sun Ra alla scrittrice Octavia Butler, passando per vere e proprie istituzioni quali Samuel Delany e Basquiat, si appropria dei mezzi espressivi tipici della cultura occidentale utilizzandoli con i filtri, le tematiche e l’estetica del proprio retaggio culturale di origine africana. Di questo movimento si è parlato poco, specie in Italia, eppure negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo e autrici come la scrittrice afroamericana Nora K. Jemisin iniziano a farsi strada a livello internazionale vincendo premi importanti, nel caso di Jemisin l’Hugo, il Nebula e il Locus con la sua trilogia della Terra Spezzata. Se, tuttavia, la scrittura di Nora K. Jemisin rimane molto vicina al gusto dei lettori europei e africani, la vera autrice di rottura rispetto alla tradizione è Nnedi Okorafor, scrittrice statunitense di origini nigeriane, nella fattispecie di etnia Igbo. Già conosciuta in Italia per romanzi come Chi teme la morte (ed. Gargoyle Books) e Laguna (ed. Zona 42), Okorafor conquista la scena africana ed europea nonostante o forse proprio in virtù di una scrittura profondamente diversa, una voce che affonda a piene mani sia a livello stilistico sia a livello di contenuti nella tradizione africana più profonda.
Come Nora K. Jemisin prima di lei, Nnedi Okorafor conquista i premi Hugo e Nebula grazie alla sua creatura più famosa, Binti, i cui racconti, novelle e romanzi sono raccolti in un volume edito da Mondadori nella collana Oscar Fantastica (Nnedi Okorafor, Binti, ed. Mondadori, Oscar Fantastica, 2019, 450 pag. € 16,63). Nnedi Okorafor racconta una saga fantascientifica profondamente intrecciata con la tradizione, la sensibilità e le dinamiche sociali tipiche dell’Africa occidentale, e lo fa senza mai risultare minimamente didascalica. Binti trabocca di riferimenti che il lettore occidentale medio non coglie, ma il senso generale arriva forte e chiaro. Binti racconta, anzi, canta il cambiamento in tutti i suoi aspetti, compresi quelli meno consolanti e più dolorosi. L’eroina, il cui nome dà il titolo alla raccolta, attraversa una lunga serie di incontri con l’altro da sé, incontri spesso traumatici che la cambiano radicalmente nella mente, nello spirito e anche nel corpo, in un viaggio iniziatico continuo, esaltante e doloroso, una tematica tipica di una Nnedi Okorafor che qui, a differenza dei suoi lavori precedenti, sembra quasi più pacificata e meno carica di quella rabbia graffiante che caratterizza prima fase della sua produzione. La scrittura è invece piacevolmente riconoscibile. Lo stile di Okorafor è fisico, pastoso, sensuale e piacevolmente irregolare, una scrittura densa e potente ma non sempre controllata, costellata di deragliamenti consapevoli e voluti, funzionali a un’immaginazione vulcanica che mette in scena un world building ricco e caotico, pieno di inventiva come pochi al giorno d’oggi. Una scrittrice di rottura, che porta con sé un modo differente di raccontare.