Blue & Lonesome: la simpatia inarrestabile degli Stones per la musica del diavolo

4355_Sympathy For (The Music Of) The Devil: il blues nel cuore e nell’anima, sebbene ci abbiano messo mezzo secolo per rituffarsi completamente nei suoi ritmi. Anni che i Rolling Stones – i quali cominciarono la loro avventura con un’abbuffata di pezzi caratterizzati dalle dodici battute, pubblicati in 45 giri e in due lp eponimi colmi di musica nera, usciti nel 1964 e 1965 per la Decca – hanno utilizzato per dominare il mondo del rock e trasmettere un’energia senza eguali al loro tempo. Alla fine, il richiamo della “musica del diavolo” è riemerso irresistibile e ha generato Blue & Lonesome, disco interamente di cover che esce il 2 dicembre nei formati tradizionali e in digitale. Lo abbiamo assaporato in anteprima nella sede italiana della Universal, che lo ha prodotto attraverso l’etichetta Polydor: un ascolto blindato, con vincolo di riservatezza fino a pochi giorni fa. L’album consta di 12 pezzi scritti e registrati in origine tra il 1955 e il 1971 da bluesmen straordinari anche se non universalmente noti, appartenenti alla scuola di Chicago, quali Howlin’ Wolf, Little Walter, “Magic Sam” Maghett, Eddie Taylor, Lightnin’ Slim, Jimmy Reed, Willie Dixon, Otis Rush. La (parziale) eccezione è rappresentata da un brano composto da Grayson & Horton nel 1971 per Little Jhonny Taylor, un interprete R&B: ma Everybody Knows About My Good Thing, assolutamente non indimenticabile nella sua versione, è qui una meraviglia, forse la vetta del disco, con la voce di Mick Jagger che si fa sporca e trascinata, mentre le chitarre di Keith Richards e Ronnie Wood – più quella formidabile di Eric Clapton in appoggio, a rallentare il ritmo secondo la ricetta del Delta – impazzano tra riff avvolgenti e distorsioni da brividi.

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Le altre perle sono la titletrack (struggente ballata con venature western), Little Rain (dal crescendo irresistibile), e Hoo Doo Blues in cui le percussioni di Jim Keltner innervano la batteria di Charlie Watts, mentre Jagger delizia con l’armonica a bocca. Il suono è scarnificato, senza sovraincisioni, perché la band ha voluto riprodurre l’atmosfera di un live in studio, riuscendoci. Ma tutto in Blue & Lonesome, registrato in tre giorni, è essenziale senza risultare povero, di potenza antica senza apparire vecchio. L’avventura dei Rolling Stones è intrecciata con il blues fin dal principio, quando – erano i primi anni ’60 – sotto la pensilina di una stazione di bus che da Dartford portava a Londra, Jagger incontrò il vecchio compagno di scuola Richards con sottobraccio vinili di Muddy Waters e Chuck Berry. Lì scoccò la scintilla, che il successivo contatto con Brian Jones all’Ealing Club della capitale alimentò, facendo divampare fiamme che avrebbero marchiato a fuoco decenni di musica con l’impronta della tongue, la mitica lingua rossa simbolo della band. La quale – nella copertina del nuovo disco e nei gadget – ha assunto una colorazione a tono, in blu appunto, pur mantenendo tracce di rosso, di bianco e un fondo virato sul viola. Il disco che omaggia le radici stesse delle “pietre rotolanti” non è giunto come un fulmine a ciel sereno. Indizi del ritorno al cuore del blues erano già stati il lavoro solista di Richards (Crosseyed Heart) nel 2015, in cui il chitarrista riaffermava il debito verso il genere (“Non puoi amare il rock, se non conosci il blues” è una sua storica frase) e, a marzo 2016, l’abito bluesy con cui gli Stones rivestirono il leggendario concerto dell’Avana, che ha fatto respirare l’aria del rock a Cuba. Da ottobre, con l’annuncio dell’album (già registrato in realtà a dicembre 2015) le cose furono chiare; ora che il disco appare, testamento esplicito di un amore mai sopito, tutto assume una definizione e tonalità nuove: alle fonti della bellezza, ogni cosa si colora di blu(es).