Quello che colpisce fin dal primo ascolto dell’album Ritorno al fuoco è il grado di verità e tempestività rispetto al reale. I Gang come sempre rinunciano all’ottimismo fine a se stesso, scantonano dal quieto vivere e si occupano dei perdenti o delle utopie che gli interessano affrontando tutto faccia a faccia. In quest’epoca di mezze misure titubanti, di fascisti che hanno definitivamente rialzato la testa, è consolante. Nel loro canzoniere continua a dettare la linea la tattica diretta, il punto esclamativo. Solo loro possono oggi permettersi di aprire il disco con una canzone consacrata alla Banda Bellini, quelli del Casoretto, la banda dell’antifascismo militante:”Ma c’è chi non s’arrende/E la vita si riprende/La vita non si compra/La vita non si vende/ La Banda Bellini/ Non fa prigionieri/ Ribelli guerrieri della libertà/”. Parafrasando Toni Negri i Gang sono:”Singolarità che agiscono in comune”. La loro rabbia perfora le nebbie crepuscolari, i testi spesso sono abitati da pietà, speranza, disillusione. Nella loro lunga e progressiva maturazione i fratelli Severini hanno amalgamato gli studi continui sul materiale popolare, il rock, le canzoni di lotta. L’attenzione agli impasti sonori, ad una ritmica sempre robusta, al rapporto dialettico fra testi e musica si è evoluto grazie anche al ruolo di produttore Jono Manson che questa volta ha dato spazio ai fiati, alle chitarre 12 corde, al banjo, al piano elettrico, al Tres cubano. Un lavoro certosino, con Jason Crosby spesso al piano, Jon Graboff al mandolino e alla chitarra e un altro pugno di musicisti sopraffini come John Michel, Michael Jude, Mark Clark, Barry Danielian, Joel Guzman a dir la loro in registrazioni aggiuntive effettuate a Brooklyn, Vancouver, Jamshoro (in Pakistan).
I testi di Marino Severini non sono più una sorpresa. “Prima ancora di comprendere la lingua, bisogna che la riconosciamo. È necessario riconoscerla come propria, è necessario che noi siamo convinti che possa parlare per noi. E tuttavia deve rimanere come tutte le lingue un simbolo di comunicazione” scrive William Carlos Williams in Paterson (poeta che ha raggiunto una certa notorietà grazie all’omonimo film di Jarmusch ambientato nella città del New Jersey dove Williams ha vissuto fino al 1963). Ed è esattamente ciò che ha fatto Marino con la storia dei Gang: si è riconosciuto nel rock’n’roll e lo ha ribadito in tutti gli album, sfruttandolo nella sua più intima natura…Una ricerca della bellezza, di speranza, di comunità e possibilità, di qualcosa che combatta la brutalità, la violenza, la sofferenza. Per questo sono nate canzoni come Azadi, sullo scempio del Kashmir; Dago, sul linciaggio a New Orleans nel 1891 di 11 immigrati italiani; Concetta, sulla disoccupata che si diede fuoco negli uffici dell’Inps a Torino; Via Modesta Valenti, su un indirizzo che non esiste, che deve il suo nome a una senzatetto morta in strada sola e abbandonata, in una Roma indifferente. Oggi ipotetico indirizzo sui documenti di chi una casa non l’ha. Queste canzoni alla fine sono una guida alla sopravvivenza, frammenti di una narrazione più articolata e complessa, capace di avere e offrire una visione di insieme quasi fosse un romanzo. Per questo ci deve essere lo spazio per la speranza, per El Pepe, monumento all’utopia (riuscita) di Pepe Mujica, per il sogno possibile di Un treno per Riace (Terra Promessa/ La nostra festa/ Terra del vino e delle rose/ Fino a Riace questo treno ci porterà/). Un universo carico di colori e spezie, caotico e mediterraneo. Insomma un album denso e pieno di prospettive che porta a perdersi e a stare svegli. Per fare funzionare le storie è utile lasciare ogni tanto la chitarra e tirar giù i libri dagli scaffali e il Marino Severini lettore è un animale onnivoro e caotico: Gary Snyder gli ha regalato il titolo dell’album, ma al suo fianco quando ha scritto c’erano anche Osvaldo Soriano, Jack Kerouac, Arundhati Roy, Marco Philopat, Arzu Demir. Marino deve molto anche a Paolo Volponi. Con lo studio delle sue pagine si è trasformato da descrittore della realtà in un poeta delle mutazioni della realtà. I Gang conoscono bene sociologia e mondo industriale vero. Le loro storie venate spesso di alienazione prendono corpo da una realtà mutante, di cui la fabbrica, nei suoi meccanismi concreti e descrivibili è stato l’irrinunciabile punto di partenza.