Cosa c’è in quelle case che vediamo da lontano, isolate in paesaggi scarni, oltre le autostrade e le ferrovie, mentre viaggiamo da una città all’altra in treno o in macchina? Case abbandonate, ruderi fatiscenti, lontani dalla vita. Ci abita davvero qualcuno? E questo qualcuno come vive? Con la loro ultima produzione i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo paiono portarci a osservare quei luoghi da vicino, attraverso una lente d’ingrandimento emotiva che non può lasciare indifferenti. Dostoevskij, produzione italiana del 2024 che segna il loro debutto nel formato seriale, è stata presentata in anteprima mondiale alla Berlinale 2024, per passare al cinema in un evento unico dall’11 al 17 luglio scorso. Attualmente visibile su NOW (e su Sky) suddivisa in sei episodi (279 minuti totali), la serie segue le vicende del poliziotto Enzo Vitello – interpretato da un drammaticamente perfetto Filippo Timi – impegnato nella caccia a un serial killer soprannominato “Dostoevskij” per la sua “firma”: lasciare lettere accanto ai corpi delle vittime, riflettendo sulla vita, ma soprattutto sulla morte, e descrivendone gli ultimi momenti. Questa corrispondenza spinge Vitello in una spirale ossessiva, costringendolo a confrontarsi con i propri demoni interiori e con un segreto che riguarda l’abbandono della figlia Ambra (una convincente Carlotta Gamba) durante la sua infanzia.
La serie esplora temi come l’ossessione, la colpa e la dualità dell’animo umano, offrendo una riflessione profonda sulla natura del male. Girata interamente in pellicola Super 16mm, esteticamente impeccabile, Dostoevskij rappresenta forse la vetta più alta raggiunta dai D’Innocenzo nel loro percorso di costruzione dell’immagine cinematografica: campi in fiore, pavimenti allagati che paiono quadri astratti, strade polverose, edifici abbandonati o abusivi, sempre avvolti dal manto dell’inadeguatezza umana, detriti visuali ed emotivi che si accumulano episodio dopo episodio. La fotografia, affidata a Matteo Cocco, attinge ad atmosfere ghirriane, incupendole: le tonalità desaturate evocano un senso di opprimente alienazione, a volte interrotto da improvvisi accenti cromatici che sottolineano momenti di violenza emotiva o fisica. Gli ambienti, microcosmi chiusi e claustrofobici anche quando si tratta di spazi aperti e sconfinati, si articolano quali riflessi dell’animo dei personaggi: campi, cortili, caseggiati, orfanotrofi, alberghi, stazioni di polizia, vengono ripresi con un’attenzione quasi pittorica, trasfigurati in scenari di inquietante immobilità, dove la salvezza sembra sospesa e irraggiungibile.
Le musiche originali di Michael Wall delineano in maniera perfetta lo sviluppo degli eventi e i contrappunti costituiti dai brani di Egisto Macchi evidenziano uno spiccato gusto per il sonoro, oltre che per il visivo. L’uso del silenzio è altrettanto significativo: momenti di quiete improvvisa interrompono nell’azione, creando una tensione latente che riflette il conflitto interiore dei personaggi. Questo approccio conferisce alla serie un ritmo particolare, in cui il tempo sembra espandersi e contrarsi in base alle esigenze emotive della narrazione. Dostoevskij è una serie pesante. In senso assolutamente positivo. Questo peso specifico così importante non è dato dallo svolgersi degli eventi o dalla crudezza degli argomenti trattati, bensì da quanto è carico ogni singolo fotogramma che la costituisce. Con questa serie i fratelli D’Innocenzo confermano la loro capacità di esplorare le complessità dell’animo umano, offrendo una narrazione intensa e visivamente affascinante.