A posteriori è facile trovare il titolo con cui celebrare il ritorno di Cat Stevens. Ma né facile, né scontato, era, a priori, l’esito del concerto che il cantautore inglese ha tenuto al Forum di Assago lo scorso novembre, rompendo un silenzio di trent’anni in cui aveva centellinato le apparizioni, pubblicato due album non memorabili e composto una manciata di preghiere cantate, ostinato omaggio alla religione a cui si è convertito a metà anni Settanta, l’Islam. L’unico momento, peraltro non cercato, in cui era salito prepotentemente alla ribalta era connotato negativamente ed era relativo all’appoggio (sempre smentito dall’artista) alla fatwa lanciata dall’ayatollah Khomeini contro lo scrittore Salman Rushdie, reo di aver pubblicato I versetti satanici, un libro reputato offensivo dai militanti islamici. C’era dunque grande attesa per l’unica tappa italiana del Peace In Train Late Again Tour, rentrée dell’artista londinese nato Steven Demetre Georgiou, celebrato come Cat Stevens e divenuto, dopo la conversione mussulmana, Yusuf Islam. Ma che ora si fa chiamare semplicemente Yusuf, scelta di low profile forse dettata da ragioni di opportunità, ma particolarmente apprezzabile in un periodo di fortissime tensioni religiose. Le aspettative delle migliaia di fans (vecchi e nuovi: tra il pubblico prevalente di cinquantenni si vedevano anche parecchi giovani) sono state ampiamente ripagate: lo show di Yusuf Cat Stevens non è forse“maestoso” come lo vorrebbe il Telegraph (attesa anche la semplicità della scenografia, di fatto ridotta a una stazione stile Vecchio West), ma è di grande impatto emotivo.
L’inizio è quasi trattenuto, appeso al filo di una nostalgia che avvolge i settemila spettatori e che sembra ipnotizzare anche il musicista. Che infatti apre con un richiamo fortissimo al passato: l’incipit è con The Wind, da Teaser and Firecat (1971), l’album più presente in una scaletta di trenta preziosissimi gioielli. Poi è il turno di Heres Comes My Baby, nota in Italia per la versione dei Rokes (Eccola di nuovo). Seguono classici come Sitting, The First Cup Is The Deepest (e qui Cat Stevens si permette un’operazione direcupero : “molti credono che sia di Rod Stewart, stasera me la riprendo”), Morning Has Broken. Nulla da dire sulla voce: non ha perso in calore, è solo più “sporca”, più graffiata, e rimodulata su tonalità più basse. Prima della pausa, lo spettacolo si scrolla di dosso la malinconia per i tempi andati: l’omaggio al Curtis Mayfield di People Get Ready e ai Beatles (con un medley molto personale) è il segnale che Yusuf, riconciliato con la storia di Cat, non è più intimorito dal potere seduttivo della musica, che aveva a lungo respinto come una distrazione intollerabile nel suo percorso umano e spirituale. La seconda parte del concerto è infatti trascinante. Al tema della pace, esplicitato pure nel titolo del tour, si affianca quello della schiavitù, esorcizzata con l’omaggio a Mandela (Gold Digger) e con le strepitose cover che, alternate a composizioni originali sviluppate in chiave blues (su tutte: I Was Raised In Babylon), rappresentano l’ossatura di Tell’Em I’M Gone, il nuovo album, in cui si svela l’antica passione per soul e r&b: Big Boss Man di Jimmy Reed, la tradizionale You Are My Sunshine, The Devil Came From Kansas dei Procul Harum, oltre alla title track (dal repertorio di Leadbelly). Così il finale è tutto per Stevens vecchia maniera: Father & Son, Peace Train, Wild World, con il pubblico che dimostra di apprezzare. Il treno della pace è di nuovo sulle rotaie, il ”gatto” è davvero tornato.
Le fotografie sono di Alberto Prandoni.