Io sono mia moglie di Michele Di Giacomo: l’automedicazione ai colpi della vita

Tra il gennaio del 1993 e l’aprile del 2002 il drammaturgo statunitense Doug Wright si reca più volte a Berlino per intervistare l’enigmatica Charlotte Von Mahlsdorf (all’anagrafe Lothar Berfelde), donna trans* (un tempo si sarebbe detto un travestito) sopravvissuta quasi miracolosamente per mezzo secolo alle insidie dei regimi nazista e comunista a Berlino Est, recuperando oggetti e mobili di antiquariato dalle case degli ebrei deportati, dalle macerie delle bombe della Seconda Guerra Mondiale e dalle abitazioni confiscate dalla Stasi (la polizia segreta della RDT), collezionati nel Museo Gründerzeit nel quartiere Mahlsdorf, che negli anni Settanta divenne un punto di ritrovo sicuro per la comunità omosessuale della città.

Date le circostanze storiche in cui è vissuta, che hanno visto morire decine di migliaia di omosessuali nei lager nazisti e perseguitarne altrettanti dal regime comunista, scrive Wright a Charlotte, «non mi sembra possibile che lei possa esserci. Non dovrebbe nemmeno esistere». Questo dubbio è la pietra angolare del potentissimo testo teatrale che lo stesso Wright, dopo la morte di Charlotte, avvenuta nel 2002, scrive componendo in un puzzle vorticoso le interviste, messe in scena nel loro farsi, tra nastri, telefonate, sbobinamenti, analisi di documenti, colloqui con altri personaggi che entrarono in contatto con Charlotte: I Am My Own Wife, che debutta al Playwrights Horizons di New York il 27 maggio 2003 e l’anno successivo vince il Premio Pulitzer per la drammaturgia e il Tony Award per la migliore opera teatrale. Sono evidenti i debiti con il film Ich bin meine eigene Frau (1992) del regista Rosa von Praunheim (1992), a sua volta ispirato all’autobiografia pubblicata poco prima da Charlotte, coinvolta lei stessa nel film come attrice.

 

 

Il bravissimo Michele Di Giacomo nel 2021 ha finalmente tradotto, diretto e interpretato il testo di Wright, prodotto da Emilia Romagna Teatro ERT e Teatro Nazionale, in scena con il titolo Io sono mia moglie fino al 19 marzo al Teatro Elfo Puccini di Milano. Spiega Di Giacomo: «Un monologo in cui un solo attore veste 20 personaggi. I Am My Own Wife ripercorre la vita di Charlotte tramite i nastri delle interviste che Doug, anche lui personaggio in scena, le fa dal gennaio del 1993. In una stanza piena di scatole da scarpe colme di nastri, Doug rivive gli incontri con Charlotte e ne rappresenta pezzi di vita. Uno spazio fisico che diventa luogo della mente, per un’ossessiva ricerca volta a conoscere e capire chi sia questo travestito la cui vita rappresenta di per sé un simbolo, una vittoria sulla storia. […] Così ci si chiede se il suo “travestitismo” sia un mezzo per nascondersi o un modo per mostrare la parte più vera di sé, in un continuo gioco di maschere che lascia allo spettatore la possibilità di trovare la propria risposta».

 

 

Le maschere di Charlotte, a volte tenerissime (quelle riguardanti l’infanzia) a volte inquietanti (quelle riguardanti la sua collaborazione con la Stasi e la delazione di alcuni suoi amici), sono indossate da Di Giacomo con una maestria leggera che a tratti commuove, a tratti fa sorridere, a tratti fa riflettere sugli enigmi della storia e sui misteri che ciascun individuo si porta dentro, creando una girandola di pensieri e di emozioni irradiata dai passaggi vorticosi da un personaggio all’altro, dal presente al passato e viceversa, tra schegge di racconto che inizialmente crediamo vere perché non possiamo non identificarci con la figura mitica di Charlotte ma poi vengono messe in discussione da documenti e testimonianze di altri. Mentre Di Giacomo cammina, danza, canta, modula la voce per evocare le diverse identità che si avvicendano nel testo di Wright, l’ossessione del testo e del suo autore per Charlotte, o meglio la ricerca ossessiva della vera Charlotte, si avvita su se stessa, incespica, annaspa, dovendo fermarsi di fronte a delle contraddizioni insanabili tra la testimonianza della protagonista e quelle degli altri.

 

 

Il potere ipnotico di questo testo, che rappresenta con grande consapevolezza le insidie del racconto autobiografico, di per sé sempre a rischio di falsificazione del dato reale, e la contraddizione mai risolvibile tra mito e storia, sembra trovare un punto di equilibrio momentaneo, o meglio un punto di sospensione che illude autore e spettatore di potersi liberare dall’affanno incessante del dubbio e della ricerca, quando una delle voci altre evocate in scena, quella dello psichiatra, dice che i racconti di Charlotte non sono che tentativi di «automedicazione». Come sono tentativi di automedicazione i racconti di qualunque essere umano che cerchi di parare i colpi della vita e allo stesso tempo cerchi se stesso tra dubbi, paure, spirito di sopravvivenza e amore per gli altri.

 

Foto di Matteo Toni

 

Milano, Teatro Elfo Puccini (Sala Bausch)       fino al 19 marzo