Fino al 4 marzo si può visitare a Bologna la mostra Erin Shirreff. Gradi di rappresentazione a cura di Simone Menegoi. La rassegna di Erin Shirreff ((Kelowna, Canada, 1975, vive e lavora a New York), nel Salone Banca di Bologna a Palazzo De’ Toschi, è la prima personale italiana dell’artista. Si compone di un nuovo video, proiettato su un grande schermo visibile da entrambi i lati, e di un gruppo di sculture dal carattere più intimo. Tutte le opere sono state realizzate per la mostra e vengono esposte per la prima volta. Basato su un intreccio di immagini fisse e in movimento, reali e costruite, il nuovo video di Shirreff, Son (“figlio”, in inglese; ma il titolo gioca sulla semi-omofonia con la parola “sun”, sole), è un lungometraggio di animazione la cui prima ispirazione è stata la visione, da parte dell’artista, dell’eclisse totale di sole osservabile negli Stati Uniti nella tarda estate del 2017. Nel corso del video, una grande sagoma circolare scura prende lentamente forma e poi muta identità. Questo vuoto – o portale, o occhio – rimane costante lungo tutto il video, e fa riferimento alla cosiddetta “totalità”, quando la luna oscura completamente il sole; un passaggio che, nel corso di una reale eclissi, non dura che pochi minuti. Shirreff sfrutta, e al tempo stesso contesta, la qualità spesso fumettistica della fotografia astronomica standard per creare un’atmosfera che muta dal solenne all’assurdo, sottolineando la natura fondamentalmente inafferrabile degli eventi astronomici e la loro dissonanza rispetto alla scala della vita quotidiana.La seconda opera, Many Moons è un folto gruppo di oggetti di gesso scuro disposti in modo informale su una superficie coperta di fogli di giornale provenienti dal New York Times. Le forme impilate sono calchi dell’interno di un assortimento di bottiglie, tazze, ciotole e piatti, e costituiscono una collezione di forme circolari capovolte di varie dimensioni. Many Moons allude alla fatica quotidiana di un artista al suo tavolo di lavoro (e alle composizioni di Giorgio Morandi). Le forme conservano alcuni piccoli dettagli del contorno degli oggetti originali; nondimeno, a dispetto del loro design generico (o forse proprio a causa di esso) comunicano un senso di vacuità e di sradicamento. In apertura e in questa pagina: Elin Shirreff, Salone Banca di Bologna di Palazzo De’ Toschi, veduta dell’allestimento. Foto di Carlo Favero. Courtesy dell’artista e Sikkema Jenkins & Co., New York.
Formatasi come scultrice, Shirreff crea video, fotografie e infine sculture, realizzate con materiali disparati: ceneri compresse, gesso, carta, ferro laminato a caldo. Il tema di fondo del suo lavoro è il modo in cui facciamo esperienza di un oggetto nello spazio e nel tempo, soprattutto in un’epoca in cui la sua percezione è quasi sempre mediata (e costantemente influenzata) dall’immagine, fissa o in movimento. Molte delle creazioni tridimensionali dell’artista sono realizzate in studio solo per fotografarle o filmarle: lo spettatore le conosce unicamente attraverso l’immagine, restando incerto sulla loro scala, sui materiali di cui sono fatte, sulla loro forma complessiva. Per converso, le sculture che Shirreff espone fisicamente sono spesso, più che opere a tutto tondo, “una serie di parti frontali congiunte”, come si è espressa una volta l’artista parlando delle sue sculture di cenere, aggiungendo che “fisicamente, funzionano più come fotografie che come sculture”. I video sono probabilmente le opere più conosciute di Shirreff. Privi di sonoro ed estremamente curati nella composizione dell’immagine, hanno una presenza a tratti prossima a quella della pittura. Il loro passo lento e riflessivo li pone in antitesi al flusso incessante e frenetico di immagini che caratterizza la nostra cultura visiva. Si basano quasi sempre su una sola inquadratura, il cui soggetto (una scultura, un’architettura, un paesaggio, un corpo celeste, per citarne alcuni) attraversa una serie di mutamenti di atmosfera, luce e colore, come se fosse visto in diverse ore del giorno o stagioni dell’anno. Quasi sempre si tratta di effetti realizzati in studio a partire da stampe fotografiche. L’artista proietta sulle stampe luci e ombre, naturali e artificiali, ri-fotografandole centinaia di volte per documentare ogni passaggio del processo; monta infine digitalmente le immagini così ottenute in un flusso continuo. Questa singolare tecnica di animazione interroga il nostro attuale rapporto con la realtà. Ciò che vediamo nei video non è mai un oggetto, ma la fotografia di una fotografia dell’oggetto. L’artista non si cura di nascondere l’artificio, anzi, spesso lo mette volutamente in evidenza. Di conseguenza, l’attenzione dello spettatore continua a fluttuare da ciò che vede alle modalità della visione, dal contenuto al medium che lo trasmette.