Scrivo a metà Sanremo 2020, prima di conoscere una classifica di mezzo tragitto che potrebbe davvero illuminare sull’inclinazione di questa edizione e con soltanto un-ascolto-uno delle canzoni originali in gara dal vivo. E questo nonostante mi sia già inflitto circa 15 ore di trasmissione: e questo perché, suggestione o realtà, raramente in questi anni mi era sembrato che il Festival fosse tanto ricolmo di accessori di corredo, compresa una serata di cover di arcinoti classici sanremesi che, al netto di qualche esibizione notevole, è un affronto concettuale a un paradigma evidentemente non più attaccabile: che a vincere siano gli inediti. Si perché per questo pantagruelico e piuttosto oscuro regolamento le cover – parliamo di Piazza Grande, Un’emozione da poco, L’italiano, 24mila baci, evergreen di questa dimensione – concorrono al punteggio finale delle canzoni in gara. Ho l’impressione di scandalizzarmi per poco, e di essere tra i pochi a farlo, ma lo trovo abnorme: perché ossessionare il momento di massimo lancio per un artista in fase emergente o un grande autore semi-dimenticato in cerca di riscatto con l’ennesima celebrazione di quel che è stato? Perché torturarci con la sindrome del karaoke? Immaginate se al Festival di Venezia o di Cannes il giudizio della giuria di, facciamo un’ipotesi, un nuovo Jarmusch o un Terry Gilliam o un Wes Anderson fosse per regolamento in parte determinato da una riproposizione camp di Ghost Dog, un remake minimalista di Brazil o una versione “docudrama” di I Tenenbaum: vi piacerebbe essere in gara?
E poi c’è il tema dell’ipertrofia dello show, in cui sembra che “direzione artistica” oggi equivalga a “mettere tutto il possibile nel menu, tanto dopo gli antipasti non capiscono più nulla”: questo Sanremo mi sembra una di quelle feste di matrimonio in cui non si è voluto risparmiare su niente, riempiendo e pompando e gonfiando la scaletta di ogni numero possibile e facendo poi l’errore (o sbagliando la previsione) di, diciamo, lasciare agli sposi la facoltà di arrivare quando pare a loro. Un ritardo e tutto diventa un domino catastrofico, la nonna si addormenta, la zia ha un’indigestione agli antipasti, il pianobarista è arrivato troppo presto e ora chiede l’extra per rimanere quattro ore in più, la torta si ammoscia, il fotografo si rompe le palle, il trenino lo facciamo dopo, anzi no, adesso: che confusione, sarà perché ti amo! Ovviamente con tutto questo abbuffarsi va a finire che anche le primizie dello chef le mangi stanco, svogliato, tiri su con la forchetta il pregiato terzo secondo di mare e sogni solo il sorbetto al limone, e dunque passano senza più sussulti cose preziose, in alcuni casi preziosissime. Per fare una piccola lista d’impulso, invitando al recupero su RaiPlay: Paolo Jannacci, figlio di Enzo Jannacci, in gara con un brano piuttosto irrilevante, che tira fuori una versione mimetica e a suo modo commovente di Se me lo dicevi prima, con un Francesco Mandelli sorprendentemente in parte (che in pochi sembrano aver riconosciuto, in platea); il criptico fiume di parole dell’inedito di Rancore, Eden, labirintica quanto fascinosa cavalcata electro-classical nella caduta dell’Occidente, dall’11 settembre al fallimento delle mitologie post-liberiste, aggrappato al filo sottile della metafora di una mela (da Adamo a Steve Jobs), che però all’1 di notte, ecco, si assorbe con fatica residuale; un’elegantissima cover italo-andalusa di Piazza Grande di Tosca, che vedono in quattro svegli ma riesce a vincere la sua serata; un’altra cover, altrettanto intensa, di La musica è finita, con Irene Grandi che si fa l’incredibile carico di portare Bobo Rondelli (!) sul palco di Sanremo, uno dei maggiori poeti incompresi della canzone degli ultimi vent’anni, così visibilmente emozionato che sembra quasi che questa fretta di andare avanti con la scaletta e chiudere tutto in fretta gli vada pure bene. Poi, tra promettente futuro e nobile passato, accostati tra loro in modo quasi dadaista, si vede di tutto: Amadeo Minghi, La rappresentante di lista, la PFM, Myss Keta, Maria Antonietta, il pianista siriano Aeham Ahmad, Ornella Vanoni, iconcine indie impensabili su quel palco e glorie che, nonostante tutto, meriterebbero un minuto in più di celebrazione, ma invece suvvia, bisogna fare presto, siamo in ritardo, abbiamo alle braccia una flebo per ridurre gli zuccheri e un’altra con la taurina per mantenersi svegli fino alla fine.
A cosa serve l’ipertrofia? Forse a rintontire, a dare un colpo secco e stordente di quelli che ci vuole una settimana intera per riprendersi, a garantirsi che la bolla dei commenti e delle polemiche sul nulla più irrilevante e l’attenzione smisurata ai cantanti che durante l’anno ignoreremmo con snobistica indifferenza ci consenta, per un po’ soltanto, di sentirci tutti protagonisti di un mezzo sogno all’incontrario, in cui l’orrenda realtà lì fuori sembra mettersi in pausa (avete sentito che c’è stato un disastro ferroviario perché uno scambio era messo nella posizione sbagliata? E del coronavirus, ossessione epidemiologica della settimana scorsa, ebbene: lo sapete che è in Italia?). Ma il mio amore smisurato per Sanremo e tutto il barocco carrozzone che trascina con sé mi rende impossibile liquidarla come una questione di “sospensione lenitiva”, una cura palliativa per un Paese in dissesto. E allora vai a vedere che questa ipertrofia è solo generosità mal gestita e tenerezza talmente debordante da scostare: come quella famiglia che, per non dare un’impressione di umiltà, o peggio di taccagneria, ha progettato questo pranzo di matrimonio come una specie di incoronazione reale. Un trionfo di superfluo perché non si possa pensar male degli sposi. Cioè noi, in quanto equazione: Sanremo = Italia. Prendere tutto o vomitare a fasi alterne: ma suvvia, resistete un po’, e nel caso ballate, fatevi un trenino. Felicità.
Vincenzo Rossini è autore del blog musicale Unadimille