Superare la materia: al Bergamo Film Meeting i corti animati di Izabela Plucińska

La materialità è quello che ci si aspetta da un’artista che ha lastricato di plastilina la sua via nell’animazione. Un qualcosa che resti insomma a metà fra il piacere della duttilità con cui imbastire le forme, e un senso dell’immanenza, dell’oggetto fermato nella concretezza del materiale utilizzato. Invece, e la sorpresa è grande, nei lavori di Izabela Plucińska si intravede costante una volontà di andare oltre quella concretezza. La plastilina, in breve, è un punto di partenza da cui partire per superare la materia del mondo. 14 sono i lavori realizzati nell’arco di vent’anni, tra il 1999 e il 2019 e ora raccolti nell’omaggio retrospettivo del Bergamo Film Meeting online, in un unico programma che li ripropone in un preciso ordine cronologico per dar modo di coglierne la progressione tecnica e tematica. Studnia/Backyard (del 1999), Dubler (ovvero Gemello, del 2001) e Po drugiej stronie (Dall’altro lato, 2002) sono stati realizzati negli anni della formazione alla Łódź Film School e già aprono le porte giuste: il mondo dell’autrice ha una qualità post-impressionista genuina, attraversata da figure bidimensionali che scivolano sugli sfondi trasfigurandosi in oggetti d’uso comune (bidoni della spazzatura, panni stesi ad asciugare…). Sono storie di doppelgänger in cui l’uomo e la propria ombra interagiscono e si confondono, o di un fotografo che si ritrova a confronto con i personaggi che ha immortalato, senza dialoghi, ma affidandosi agli artifici visivi. I confini sfumano progressivamente e la tecnica ancora acerba, il senso di precarietà di queste figure sformate e di questi scenari poco definiti, determinano una funzionalità viva che genera immediatamente uno stile. (In apertura un’immagine tratta da Portrait en pied de Suzanne).

 

Jam Session (2005)

 

Jam Session, Orso d’Argento a Berlino nel 2005, sembra portare a maturazione un’idea dove visualità tra Van Gogh e Toulouse-Lautrec si accompagnano all’evoluzione del discorso su questa plasticità liquida. Un’opera che permette di circoscrivere anche il versante tematico di un corpus fatto di protagonisti instabili, alle prese con le difficoltà del quotidiano e un tempo che li incatena in ruoli da cui vogliono sfuggire o in contraddizioni da risolvere. Sono storie di coppie in crisi, come accadrà ancora in Sexy Laundry, di dieci anni dopo, con due anziani coniugi in una camera d’albergo che sembra quasi un ironico rovesciamento dell’Ultimo tango a Parigi, impegnati a ritrovare la passione sopita dopo una vita diventata routine. La trilogia della quotidianità formata da Sniadanie (Colazione, del 2006), Popoludnie (Pomeriggio, del 2012) e Abend (Sera, del 2016) diventa così un primo picco espressivo, in cui semplici contorni grezzi definiscono le due figure su uno sfondo uniforme da cui lasciar “emergere” con un tocco i dettagli. La forza espressiva, di una semplicità che sarebbe piaciuta al nostro Osvaldo Cavandoli, definisce non solo il geniale ossimoro di un materiale concreto utilizzato come un tratto di matita su un foglio, ma anche il senso della precarietà di una vita che si ripete nell’uniformità delle emozioni. Eppure, questa condizione esistenziale non definisce lavori mesti o semplicemente malinconici, ma possiede sempre una sua grande giocosità. Arrivati a questo punto, ci si aspetta quasi che la Plucińska animi i bassorilievi egizi: ci si va vicini con Esterhazy, del 2009, in cui il nobile ed eponimo coniglio cerca la compagna con cui formare una famiglia sotto i graffiti del Muro di Berlino. D’un tratto riecco i fantasmi del comunismo dell’ex Polonia da Guerra Fredda, ma il tono è ancora una volta lieve e divertito, capace di tenere insieme una suggestione e il suo contrario. Le strade da percorrere diventano quindi due: da un lato quella in cui esplicitamente i personaggi si perdono in uno spazio che diventa suo malgrado immateriale. Come i viaggiatori di 7 More Minutes (del 2007), che un incidente ferroviario costringe a un’improvvisa fermata su una spiaggia, davanti a un mare in cui immergersi per non tornare più. Oppure i corridori di Marathon (2008) che in una città su cui cala improvvisamente la nebbia, iniziano a librarsi nel cielo.

 

Sexy Laundry (2015)

 

L’altra via è portare alle estreme conseguenze le possibilità espressive offerte dalla trilogia della quotidianità. Liebling, del 2013, è così il capolavoro dell’autrice, in cui l’uniformità dello sfondo da cui emergono i dettagli del mondo si fa metafora dell’incertezza di una protagonista che soffre di amnesia, non ricorda la sua famiglia, mentre in filigrana si agita lo spettro di un trauma forse legato alla perdita del figlio. Tenerezza e inquietudine tengono insieme un tour de force espressivo dove la superficie su cui è spalmata la plastilina viene attraversata da linee spezzate che descrivono la ragnatela emotiva in cui si agita la donna. In mezzo una terza via rappresentata da Josette und ihr Papa, in cui si rinviene l’afflato fiabesco mitteleuropeo, quasi una bizzarra rivisitazione di Pollicino: protagonista è infatti una bambina alle prese con un padre assente e rappresentato soltanto come un’ombra. Almeno fino al finale in cui la piccola si scoprirà un essere minuscolo nella mano del genitore. Se le mani modellano un mondo materialmente fluido, non può che dunque toccare a un piede la scoperta della carne: Portrait en pied de Suzanne, suo ultimo lavoro del 2019, è così un grottesco incubo a metà fra il primo Cronenberg e il Basket Case di Frank Henenlotter, dove un omone afflitto dalla malinconia per la compagna scomparsa, la vede rivivere nella mutazione di un piede trasformatosi in un’escrescenza antropomorfa. Non a caso il film segna un maggiore senso di quella concretezza sempre realmente aborrita, e che quando viene abbracciata non può che esplodere in tutta la sua più virulenta ossessività.

 

Popoludnie (2012)