Una bella sfida quella di portare in scena La bisbetica domata (ma più corretto sarebbe dire “addomesticata”, proprio come la volpe del Piccolo principe), una delle prime commedie di Shakespeare che in epoca di femminicidi e violenza sulle donne può far storcere il naso a più di uno spettatore. E invece la lettura che ne dà Andrea Chiodi nello spettacolo che dopo il debutto lo scorso dicembre al LAC di Lugano, è ora in scena al Teatro Carcano di Milano (fino al 18 febbraio), è molto profonda e rivelatrice delle dinamiche uomo-donna e finisce per essere inaspettatamente femminista nella sua critica al ruolo maschile che la donna deve assumere per avere un posto nel mondo. Adattato e tradotto da Angela Dematté, è interpretato da un cast di soli attori uomini tutti bravissimi: Tindaro Granata (un’animalesca e poi misuratissima Caterina), Angelo di Genio (Petruccio), Christian La Rosa, Igor Horvat, Rocco Schira, Max Zampetti, Walter Rizzuto, Ugo Fiore. Uno spettacolo che riporta al centro il potere della parola e, grazie al ritmo serrato dei duelli verbali e ai raffinati inserti musical (sulle note di Caterina e Magic Moments di Perry Como e di Love Me Tender di Elvis Presley), risulta estremamente divertente. Sicuramente sarebbe piaciuto allo stesso Shakespeare. Ne abbiamo parlato con il regista Andrea Chiodi.
Hai mantenuto la cornice in cui è inserita la commedia vera e propria, fondamentale per capire che stiamo assistendo a una rappresentazione.
C’è chi sostiene che la parte del prologo non fosse interamente di Shakespeare, ma ormai le fonti ufficiali la danno come totalmente sua e, in effetti, è una scrittura che non dà nessun dubbio del fatto che sia un gioco teatrale amato da Shakespeare. Fin dalla prima lettura del testo, sono stato convinto che nel prologo e nell’epilogo c’è, per certi versi, la parte più interessante dell’opera. È nel prologo che si capisce da subito che l’animo umano è cattivo e pronto a prendere in giro e denigrare il diverso, l’altro, sia esso il femminile o l’ubriacone che viene trovato nel bosco dai cacciatori. La cattiveria di questo gioco iniziale è stato lo spunto che mi è servito per capire di più di che cosa trattava tutta l’opera, lì inizia il gioco della finzione, dell’astuzia, della cattiveria umana. Ho tenuto il prologo quasi per intero, mentre ho ridotto un pochino l’epilogo.
Questo getta una luce diversa anche sulla sottomissione finale di Caterina che altrimenti è difficile da digerire…
Sì è terribile… Così facendo poteva esserci il rischio di far credere che il comportamento di Petruccio nei confronti di Caterina fosse come dentro un sogno, in realtà, secondo me, è dentro un disegno cattivo in cui Shakespeare vuole mettere tutta la vicenda. Poi è vero che in qualche modo ci libera un po’ il fatto che sia la rappresentazione della realtà e anche quel monologo fa parte di questa rappresentazione, fatta da attori che vengono chiamati a fare una messinscena per un signore. Molti dicono che Shakespeare sia misogino, io non lo penso. Credo sia un grande osservatore della realtà, descrive quello che la realtà del suo tempo era e nel descriverla in qualche modo la giudica, la critica o comunque ti mette davanti a quello che è, ed è terribile. Non si può non avvertire questo aspetto.
Nelle note di regia dici che La bisbetica domata «è innanzitutto un esperimento sul potere manipolatorio della parola». I duelli verbali tra Caterina e Petruccio nel tuo spettacolo emergono con una forza incredibile…
La parola in Shakespeare è centrale. Perché è diventato così grande? Perché Shakespeare è la parola, il testo suo contiene una forza straordinaria che fa venir fuori le relazioni. Dico sempre che a livello di significato Shakespeare è il più difficile da affrontare, ma spesso è anche il più facile da dire perché è talmente ben architettata la drammaturgia che difficilmente crolla. E bisogna stare attenti, anche quando si fa – come nel nostro caso, un adattamento molto fedele, quindi una sorta di riduzione – a non togliere delle cose perché se ci sono fanno parte di un’architettura molto ben pensata.
In quest’ottica filologica di rappresentazione rientra anche la scelta di far interpretare tutti i personaggi da uomini?
La prima suggestione è che una compagnia di soli uomini va bene perché il teatro elisabettiano è fatto di soli uomini, però sono convinto che se Shakespeare avesse potuto probabilmente avrebbe messo in scena delle donne. Invece era vietato, tant’è vero che nelle cronache si legge che gli attori che facevano le parti delle donne erano dei giovinetti, degli attor giovani, quindi si ricercava un aspetto femminile. In questo caso, in realtà, a me è interessato moltissimo il fatto che Caterina per avere un ruolo nella società è costretta a diventare uomo, a pensare come gli uomini e allora solo una voce maschile e un corpo maschile potevano raccontare questo tipo di femminile e renderlo ancora più terribile perché è terribile che una donna, per avere un ruolo nella società, debba uguagliarsi a un uomo. È anche vero che mi sembrava talmente insostenibile vedere in scena un’attrice donna trattata in quel modo da un uomo che sarebbe stato ancora peggio e non avrebbe reso con la stessa forza il monologo finale in cui lei decide di essere una cosa. Comunque tutto nasce da una ragione storica perché in quell’epoca sale al trono Elisabetta I e Shakespeare ha la visione di una donna al potere che però è come un uomo, si comporta come un uomo, deve mettersi l’armatura per avere una credibilità, pur vestendosi poi in un certo modo, però istituisce le gorgiere per le donne che prima non le indossavano, quindi questo aspetto del femminile che per avere un ruolo nella società dell’epoca deve diventare uomo è molto presente.
E purtroppo ancora tristemente attuale…
Questo è l’aspetto sconcertante. È tanto attuale che io e Tindaro abbiamo guardato i discorsi alle Camere di Margaret Thatcher in cui lei parla come un uomo, ha una durezza quasi maschile. Anche oggi Angela Merkel ha veramente poco di femminile, non nell’aspetto fisico, ma in una certa impostazione molto maschile. Poi c’è l’aggravante di tutto un aspetto legato alla violenza sulle donne che invece è un discorso altro, però purtroppo troppo attuale.
Hai lavorato con un gruppo di attori straordinari…
Per me è stato bellissimo perché si è creata una fiducia enorme e abbiamo potuto sperimentare, ho avuto la libertà di chiedere, prendere delle direzioni, poi cambiarle, provare altre cose. È stato davvero molto bello…
Hai reso Bianca un personaggio silente, quasi imbalsamato nel suo ruolo. Sembra un po’ l’immagine della donna come molti uomini vorrebbero…
Sì, ed è ancora più agghiacciante perché lei, pur di rimanere donna, essere corteggiata, sta in silenzio. Nel testo più volte viene detto «la silenziosa Bianca», «la quieta Bianca», in contrapposizione a una Caterina molto diversa. Allora mi piaceva dare questa contrapposizione totale, in cui Bianca non parla se non per chiedere «A che punto siamo?», «Dove siamo rimasti?» e far continuare il gioco del corteggiamento.
Bella l’idea di mettere dei dorsali con il nome dei personaggi sulla casacca, per renderli immediatamente riconoscibili.
Nel teatro elisabettiano erano scritti i luoghi più che i personaggi, mi piaceva fare una sorta di omaggio un po’ reinventato in tal senso. Poi, siccome nel testo inglese, molte volte viene ripetuta la parola “match”, pensando alla squadra che fa un gioco insieme ho voluto io stesso giocare sullo sport: i personaggi hanno i numeri, giocano con la palla e con la mazza, ci sono le scale che sono in realtà delle sedute da arbitro…
Anche gli inserti da musical sono molto efficaci. Come ti sono venuti in mente?
Sono partito dal fatto che il teatro di Shakespeare è un teatro popolare. Se pensiamo a dove e come veniva rappresentato non è certo un teatro che nasce come teatro intellettuale o come teatro per pochi, al contrario nasce come teatro per tutti. E allora volevo che questo spettacolo avesse anche quel carattere, avesse tutti i caratteri, certamente un approfondimento sulla situazione femminile da cui non si può prescindere e oggi ancora di più, però anche il carattere di commedia perché è una commedia, quindi al suo interno c’è tutto quello che ci siamo detti, ma anche le canzoni, una certa comicità, è molto inglese per certi versi… Diciamo che ho cercato di capire come Shakespeare potesse essere riportato a quell’aspetto popolare oggi.