Barbara D’Urso: non finisce qui

Ecco, il momento fatidico per i detrattori di Barbara D’Urso è arrivato: dopo quindici anni di esclusiva contrattuale, via da Mediaset, via dagli studi di Cologno Monzese. È finito, almeno per il momento, il tempo delle buste shock («choc» sic!), delle buste shock gold, di quelle «brutte brutte brutte» (cit.), del caffeuccio, dei suoi amatissimi opinionisti, della chiosa «col cuore».

Si sa, nessuno è eterno e tantomeno indispensabile, specie nell’ambiente televisivo. Quando è uscito quel comunicato stampa da Mediaset, il 1° luglio, è partita la scissione social tra chi sta esultando per l’epurazione dursiana attuata da Pier Silvio Berlusconi e chi, invece, lotta a colpi di tweet per rendere giustizia alla ormai ex Santa Barbara da Cologno; c’è, però, una terza fazione, popolata dai telespettatori più obiettivi, quelli che «non mi è mai piaciuta come conduttrice così come i suoi programmi, ma le riconosciamo professionalità e sacrificio aziendale»: certo, spesso leggiamo di come l’abbiano «spremuta come un limone», lei stessa ha dichiarato a Repubblica – nella famosa intervista-sfogo poco dopo la non riconferma di Pomeriggio 5 – di aver tenuto «la testa sott’acqua» per diverso tempo al netto, questo lo aggiungiamo noi, di contratti economici ben rimpolpati da cifre importanti. Eh, ma c’è poi il capitale sociale: d’accordo, i soldi possono fare la felicità fino a un certo punto, ma come la mettiamo con l’ego? Col bisogno di sentirsi appagati attraverso i telespettatori, attraverso i dati d’ascolto (terreno minatissimo questo, dove ognuno dice la sua in una sorta di Far West delle percentuali tra share, picchi, contatti social, pubblicità…; di chi, inoltre, parteggia militarmente per Rai o per Mediaset a prescindere dai contenuti proposti), di dover ogni volta riaffermare il proprio status di «popolana» del Sud («io sono terrona» frase ripetuta puntualmente con orgoglio), di aver creato nel tempo un microcosmo linguistico distintamente riconoscibile a chi la tivù la mastica regolarmente (il «dursoitaliano» al cui interno navigano i vari «creaturella», «cagnuzzo», i lanci dei servizi con «partiamo così!», i selfie ribattezzati «Carmelita smack» in omaggio al suo vero nome, Maria Carmela), così come la drammaturgia di una conduzione ammaliante (le movenze delle mani sono fondamentali davanti al video, lo rivelò lei stessa in un’intervista a Daria Bignardi; l’inarcatura della schiena; le gambe tese per far risaltare i muscoli dei polpacci quando si fa uso di sgabelli alti).

 

 

Per anni Barbara D’Urso è stata oggetto di analisi critiche, talvolta non proprio diplomatiche, altre più oggettive, altre ancora genuflesse al suo potere decisionale (ricordiamo le interviste rilasciate a Tv Sorrisi e Canzoni o ad alcune ospitate televisive dove era lei a condurre i giochi). La sua era – resta da buona parte della gente -, una televisione definita «trash», termine quantomai abusato in una fauna, quella di Mediaset ma pure in Rai e su La7, popolata oggi da un politically correct attorcigliato su sé stesso che risulta ancor più pittoresco delle «temibili» sfere di Live – Non è la D’Urso, degli interventi chirurgici di Nadia Rinaldi ripresi in diretta «esclusiva», dei talk a luci rosse tra mistress e OnlyFans, di Francesca Cipriani che imita Barbara Alberti, dell’affare Pamela Prati-Mark Caltagirone, di Asia Argento che dà della «matta» a Lory Del Santo riguardo al polverone sulle molestie sessuali, delle interviste ai politici («Hanno scelto me, solo me, solo per voi»), delle dichiarazioni del compagno di Antonella Elia su Temptation Island (ricordiamo, prodotto Maria De Filippi, potente e silente eminenza grigia) costate a D’Urso l’espulsione definitiva dall’universo Fascino (Uomini e donne, Amici, C’è posta per te). Ma siamo davvero sicuri che l’abbandono forzato da Canale 5 sia riconducibile agli ascolti (Dagospia, che lanciò questa notizia, l’ha dovuta rettificare in base a una richiesta pervenuta dal legale di D’Urso), ai contenuti proposti all’interno dei suoi programmi? Che poi, ricordiamolo, da un paio d’anni era stata relegata alla sola conduzione pomeridiana risicata in 80 minuti (slot pubblicitari compresi) rispetto alle ore di diretta macinate prima e poco dopo la pandemia; e, soprattutto, contrapposta a La vita in diretta di Alberto Matano (non così distante dalla filosofia dursiana, anzi).

 

 

Verità appurate o smentite, quello che lascia l’amaro in bocca, comunque, è il fatto che D’Urso non sia riuscita a salutare il «suo» pubblico, come racconta nell’intervista a Repubblica («Fazio e Bortone l’hanno fatto»); non entriamo nel merito dei rapporti tra lei, Silvio e Pier Silvio Berlusconi (ci ha già pensato Fabrizio Corona sui suoi profili social, dove ha snocciolato la sua parabola con diverse imprecisioni, d’altronde, per dirla con Wanna Marchi, «I coglioni vanno inculati») e preferiamo notare quanta poca solidarietà pubblica sia stata espressa nei suoi riguardi dal mondo televisivo, al di là di quello che lungo gli anni abbia raccontato in maniera spietata con l’utilizzo (e l’abuso) del dolore attraverso il mezzo: da Francesco Nuti a Isabella Biagini, dal testamento di Gina Lollobrigida a Lele Mora, fino ai famosi bollini in sovraimpressione diventati marchio di garanzia della sua immagine mediatica (ricordate i «chi ti picchia, non ti ama», «sportello antitruffa», «le vostre denunce», «col vostro cuore»?) e motivo di vanto perché «sotto testata giornalistica» e quindi equiparabile al servizio pubblico propugnato dalla Rai (pure qui, tra l’altro, pensiamo a Eleonora Daniele, allieva di Massimo Giletti e, volente o no, altra costola di D’Urso).

 

 

È il modo col quale le hanno dato il benservito che non è piaciuto, squalo o agnello che sia. Ma non occorre strapparsi i capelli per la sua dipartita mediatica: proprio poche ore fa, su Twitter, ha fatto capire tra le righe (altra cifra distintiva conservata lungo gli anni del suo fu impero fatto anche di stoccate pubblicamente generiche ma ben mirate) che tornerà perché «non finisce qui». Sicuramente, dopo essersi leccata le ferite arriveranno ulteriori caffeucci: neri, roventi.