Bob Rafelson, la controcultura dietro la macchina da presa

Lo scorso 23 luglio ci ha lasciato Bob Rafelson, tra i più importanti registi della New Hollywood. Aveva 89 anni. Per ricordarlo, riproponiamo alcuni stralci della bellissima e corposa intervista realizzata da John Russell Taylor e pubblicata per la prima volta nell’autunno 1976 su Sight and Sound, ripubblicata in The New Hollywood Volume 2 e da ultimo lo scorso 25 luglio sul sito della rivista (per leggerla integralmente, cliccare qui). In essa Rafelson analizza con grande acume le idiosincrasie dei suoi primi quattro film.

 

Jack Nicholson e Bob Rafelson sul set di Cinque pezzi facili (1970)

 

Sogni perduti – Head
Sogni perduti – Head è assolutamente e totalmente un film frammentato. Tra le altre ragioni c’era il fatto che pensavo che non avrei mai fatto un altro film, così tanto valeva fare 50 inizi e metterli tutti nella stessa opera. In questo stavo, in un certo senso, emulando o satireggiando lo stile di vari film americani.

 

Jack Nicholson
Sogni perduti – Head è stata la mia prima collaborazione con Jack Nicholson. A quell’epoca Jack aveva abbandonato la sua carriera di attore – non l’avevo mai conosciuto come attore – e scrivemmo e producemmo questo film insieme. Mentre lo scrivevamo Jack mimava tutte le parti, e lo stesso facevo io, e i miei occhi erano incollati alle espressioni del suo viso e all’intensità che metteva nella performance della lettura a tavolino. Gli dissi che la prossima volta che avessi fatto un film doveva esserci.

 

Cinque pezzi facili (1970)

 

Cinque pezzi facili
Nel frattempo convinsi Dennis Hopper che Jack sarebbe andato bene per il ruolo in Easy Rider e poi saltò fuori l’idea di Cinque pezzi facili. Nessun film da me diretto, a eccezione di Il gigante della strada, è partito da materiale che mi era estraneo. Prima di Cinque pezzi facili avevo scritto tre versioni di un film, sceneggiature parziali si può dire, che si svolgevano in location totalmente diverse ma sempre avevano a che fare con gli stessi problemi dello stesso personaggio centrale, che in definitiva diventò il personaggio di Nicholson in Cinque pezzi facili. Quando sentii che non potevo spingermi oltre con le sceneggiature, portai tutto il lavoro a Carol Eastman – Adrien Joyce – e dissi  «Sono davvero difficoltà.  So cosa penso del personaggio principale, so il tipo di atteggiamento che voglio trasmettere, ma non penso di poter andare avanti con queste sceneggiature. Vuoi leggerle e poi ne parliamo?»

 

Lo stile
C’è chi pensa sia strano – ma io non lo trovo strano per nulla – che lo stile di Cinque pezzi facili sia così diverso da Sogni perduti – Head. Penso realmente che le riprese, così come ogni altro aspetto della tecnica a disposizione del regista, deve essere deciso dall’atmosfera del film e che tu non imponi queste cose preventivamente. Hai una sensazione su cosa è il film, e questo determina come usi il suono, come usi la macchina da presa.

 

Il re dei giardini di Marvin (1972)

 

Il re dei giardini di Marvin
Il re dei giardini di Marvin saltò fuori in gran parte nello stesso modo di Cinque pezzi facili. Ho un fratello, e ho pensato che una delle relazioni che non ero affatto stato capace di esplorare in Cinque pezzi facili fosse quella tra i due fratelli e volevo farlo. Ho cominciato con il concetto di fare un film su due fratelli. Ero stato anche un disc jockey in Giappone e avevo preso l’abitudine di fare lunghe storie in forma libera in diretta, proprio come la storia della lisca di pesce con cui Nicholson inizia i Giardini di Marvin. E ho pensato che Cinque pezzi facili era stato molto esplicitamente naturalistico e volevo muovermi in un certo modo un passo indietro in direzione di Sogni perduti – Head.

Ho ideato il film come una sorta di incubo comico. È molto più frammentario, nello stile di Cinque pezzi facili. In Sogni perduti – Head le scene sono costantemente contraddette o interpretate in maniera diversa  alla luce della scena che segue. Lo stesso vale in certa misura per Cinque pezzi facili ma molto di più per i Giardini di Marvin. Nicholson racconta una storia su come ha complottato per uccidere suo nonno, dopo i titoli di coda, dopo una tregua di sei minuti da questa storia, tutto in un primo piano, incontriamo il nonno, e scopriamo che è vivo e vegeto e disapprova la storia che ha appena sentito in diretta raccontata da suo nipote. C’era costantemente questa sorta di approccio labirintico.

 

Il gigante della strada (1976)

 

Il gigante della strada
Con Il gigante della strada, non ero assolutamente interessato a far diventare il libro un film, ma ero interessato allo scrittore. Così incontrai Gaines a Birmingham, Alabama, ed è  stato solo alla fine di una lunghissima conversazione che gli ho detto che le conclusioni del suo romanzo non erano cosi dissimili dalle conclusioni a cui ero arrivato sia in Cinque pezzi facili sia in Il re dei giardini di Marvin. Il romanzo finisce su un tono molto esasperato con la ragazza che viene uccisa e il protagonista, Craig Blake, che vaga quasi come un nomade, insensibile alle esperienze che ha vissuto.

Gaines voleva che dirigessi il film anche se stavo suggerendo sostanziali modifiche al suo libro. C’era un certo numero di persone in lizza per i diritti del film, ma venne fuori che Gaines aveva molto apprezzato i Giardini di Marvin e che voleva lavorare con me. Pensava che l’esperienza poteva essere più interessante del suo attaccamento al romanzo. Gli dissi che stava anche per essere più pericolosa dal momento in cui avrebbe trovato che la sua natura veniva alquanto violata, e che se fosse stato incapace di andare oltre si sarebbe risentito per questa raffigurazione.