Nulla è stato conquistato che il tempo non possa riprendersi, per questo Bruce Springsteen ha iniziato la cerimonia del commiato. E lo ha fatto alla sua maniera, con una furia pacata e con la certezza di riuscire ad affrontare la realtà, qualunque cosa accada. Durerà anni, ma la struggente malinconia che ha attraversato la notte di Monza non può essere equivocata: la saga springstiniana si avvia consapevolmente verso i bilanci, per questo ha portato in scena i ricordi, gli amici che non ci sono più, la morte. Ripartirà, già il prossimo anno per i 40 anni di Born in the U.S.A., sicuramente ci saranno nuove avventure discografiche, perché la (sua) musica è una perenne ricerca di senso, un viaggio iniziatico attraverso canzoni che possono dare corpo ai sogni, cambiare i destini, elevarci sopra gli affanni. Questa volta Bruce l’ho visto da molto vicino e non poteva sfuggire il pathos (evocato anche dal tramonto) che ha messo in una sublime The River dalla bellezza accecante e la commozione che lo ha attraversato quando ha introdotto Last Man Standing, con un testo che ha interpretato (letto) durante tutto il tour ma non per questo era meno vero e sentito:«…Avevamo la stessa età ma negli ultimi anni George aveva combattuto una terribile battaglia contro il cancro ai polmoni e gli restavano solo pochi giorni di vita. Capii che con la sua scomparsa sarei rimasto l’ultimo componente sopravvissuto di quella nostra piccola band: The Castiles. Questa cosa ti fa riflettere e pensare. È come ritrovarsi in piedi sui binari illuminati dalla calda luce bianca di un treno che sta per piombarti addosso. Ti dà una certa chiarezza di pensiero mai provata prima, l’ultimo eterno regalo che la morte dona ai viventi. È una visione più ampia della stessa vita. George è scomparso e poco dopo ho scritto questa canzone. Si tratta delle passioni che inseguiamo da bambini non sapendo dove ci condurranno. A 15 anni ci sono i “domani” i “buongiorno” e andando avanti ci sono più “ieri” e “addii”. Questo ti fa solo capire quanto sia importate vivere ogni momento…».
Mai l’ho ascoltato dire al pubblico in modo così accorato: «vi porto nel cuore». Mai l’ho visto così autoironico rispetto al suo status e alle sue movenze da rockstar. Oggi Springsteen è qualcosa i più di un idolo rock. È una voce, un’indicazione: la persona che ti dice chi sei, è la scoperta emotiva della musica riafferrata come espressione diretta, come filo comunicante. Mancavano una manciata di minuti alle 20 quando la numerosa band è comparsa risalendo dal ventre del retropalco. Oltre alla E Street Band c’erano fiati, coristi e un percussionista. Poi è toccato al Boss che è partito con una martellante No Surrender. La ragazza che era al mio fianco (che non conoscevo) ha iniziato a piangere, la gente a saltare e cantare, insomma i fan si sono, come al solito, messi al lavoro. Fin dalla prima canzone si è compreso che la scaletta quasi bloccata ha potuto far lavorare splendidamente la band, come ha detto Nils Lofgren a Rolling Stone:«quando fai sempre gli stessi pezzi in concerto raggiungi un livello di profondità notevole, soprattutto perché inizi a sentire molti dettagli di ciò che fanno gli altri. E inevitabilmente questa familiarità genera un’interazione molto più stretta, un altro livello di intesa musicale». Oltre al livello delle interpretazioni (eccelsa la qualità di Johnny 99, Bobby Jean e la raffinata rilettura di Kitty’s Back) ci siamo evitati il momento jukebox con le richieste del pubblico, passaggio irritante dove sembrava valere tutto…A Monza Bruce ha rivisitato la sua poetica con la strumentazione ampliata (sul palco erano in diciotto), la trepidazione in gola, la corrente (elettrica) che ci faceva morire quietamente. E come sempre ogni canzone è un mondo sospeso tra terra e cielo, una rivelazione che ci tocca nel profondo, ci stupisce, ci fa sognare e piangere.