I promessi sposi di Alessandro Manzoni appartengono all’immaginario comune e portarli a teatro attualizzandoli è sempre un azzardo. Rischio che Michele Sinisi corre, vincendo la sfida e realizzando uno spettacolo che dimostra l’attualità e la bellezza del testo manzoniano. Uno spettacolo, quello in scena al Teatro Sala Fontana fino al 25 giugno (e poi in tournée nella prossima stagione), basato sull’opposizione di due atti molto diversi tra loro (il primo spumeggiante e colorato, il secondo, segnato dalla peste, cupo e più speculativo) e di due mondi: quello di don Abbondio e Perpetua che si oppone a quello rappresentato dai Bravi, che sembrano cloni di Fabrizio Corona, e con svariati momenti di particolare efficacia (l’Addio monti fatto recitare in video ad alcuni immigrati, il muro che sigilla la Monaca di Monza, la morte di don Rodrigo, quella di Cecilia…). Uno spettacolo corale (bravi tutti gli attori, alcuni dei quali si cimentano in più parti: Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D’Addario, Gianluca delle Fontane, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster e lo stesso Sinisi), accompagnato da musiche contemporanee e una chiusura liberatoria con una pioggia purificatrice sulle note di Singing in the Rain. Ne abbiamo parlato con Michele Sinisi.
Dopo Miseria e nobiltà, ti cimenti con I promessi sposi. Da cosa parti per le tue riscritture?
Dipende un po’ sempre dagli innamoramenti… In questo caso c’entra sia il rapporto con il romanzo di Manzoni, per me bellissimo, ma anche il ricordo che associamo alla scuola e al problema dell’interrogazione (ripreso in una scena, ndr), all’incubo, all’ansia da prestazioni. Non c’è la voglia e il progetto di definire fino in fondo, si tratta piuttosto di suggestioni mentali e subliminali che noi associamo a I promessi sposi. Quando si affrontano i grandi testi, ci si deve anche assumere la responsabilità di sbatterci la testa e di confrontarsi davvero, ponendosi degli interrogativi che ti mettono in discussione perché fa parte dell’essere umano confrontarsi con cose più grandi di lui.
Come lavori sul testo?
Si parte con una scrittura scenica, a volte c’è un trattamento verbale molto chiaro, prima si riscrive il testo. Nel caso specifico, con Francesco M. Asselta e con la collaborazione degli attori, nella prima parte abbiamo effettivamente preso tutte le enunciazioni in forma diretta dal testo di Manzoni. Non c’è la necessità e la voglia di far corrispondere il testo ai personaggi nel senso naturalistico del termine. Il pubblico nella sua testa ha un’idea di Renzo, di Lucia, di don Abbondio, di Azzeccagarbugli e vale il principio del gioco: dammi queste parole, dammi questo vestito… È il gioco a essere un personaggio, e il gioco a definire l’azione e il pubblico secondo me, nella sua testa, completa formalmente sempre l’idea di un personaggio, di uno spazio naturalistico con l’immaginazione. Chiaramente la misura è quella che poi va cercata con il mestiere…
Perché hai deciso di fare interpretare don Rodrigo a un’attrice donna (la bravissima Stefania Medri)?
Posto che l’Innominato non è il cattivo, perché rappresenta la nostra inquietudine più che un personaggio (si chiede cosa sia la spiritualità, se Dio esiste o meno, è lui stesso una grande domanda), Don Rodrigo invece resta il cattivo dei cattivi. Quindi per mettere in scena il cattivo mi sono chiesto qual è la cosa che ci farebbe più paura e da dove nasce la paura, dicendomi che è sempre qualcosa che si porta dentro una grande esperienza di sorpresa. Allora l’idea che sia un’attrice a farlo, non che don Rodrigo sia una donna, diventa ancora più stimolante. Inoltre Stefania, che normalmente è molto femminile, in quel ruolo diventa androgina, ed è giusto sia così perché la cattiveria è asessuata. Per questo ci piaceva metterla nuda nella morte facendo sorprendere il pubblico, che in qualche modo penso avverta una fascinazione per il cattivo, e che il suo corpo adagiato con il seno di fuori è bello, senza spiegazioni, con Glenn Gould che suona le Variazioni Goldberg di Bach, a sottolineare il momento lirico della morte del cattivo. Molto spesso i cattivi, anche nelle storie, finiscono per essere affascinanti.
Il pubblico, anche quello più giovane, è attentissimo durante lo spettacolo.
Dialogo continuamente con chi sta seduto in platea, è davvero una relazione. Il gioco è ciò che deve farmi fare questo mestiere, divertendomi a sorprendere, a giocare, appunto, con chi è venuto a vedermi. E poi penso sia anche una scelta di vita mettersi sul piano dell’empatia con il pubblico. Lo spettacolo inizia dalla platea, quasi come un’animazione teatrale, e ciò permette agli spettatori di rasserenarsi e poi, piano piano, comincia a proporre un linguaggio che gradualmente nel rapporto con Manzoni, con I promessi sposi arriva a stabilire un codice, che è sempre sul piano del gioco, del ludico, ma che ti fa capire che oggi il testo narrativo non è fatto solo di parola ma di tante altre cose. Se tieni saldo il livello del gioco nel principio umano del “noi dobbiamo divertirci in scena”, a quel punto il pubblico ti lascia passare tutto quello che tu non hai chiuso. E continua a essere sempre attivamente presente e a giocare con te. È davvero una relazione, che non riguarda tanto la sfera intellettuale, ma è veramente di pancia, umana. Così il rito diventa veramente collettivo, questa è la mia idea. Siamo partiti da qui.
Anche l’ambientazione è moderna, con questa struttura metallica che viene adattata di volta in volta…
Sì, abbiamo preso le parole del Manzoni, storte in bocca, con una sintassi e una grammatica pazzesca, lontanissima da noi, e abbiamo deciso di farle sentire queste parole, anziché riscriverle, di (p)renderle contemporanee nel senso drammatico del termine, così come in una casa può stare un mobile antichissimo in uno spazio high-tech. C’è questa associazione di segni che non sono più in contrasto uno con l’altro nel mondo contemporaneo. Al netto del fatto che in ogni spettacolo, in ogni manifestazione, in ogni comunicazione, in ogni relazione c’è una mancanza di sincerità totale, ma nella vita delle persone pure succede e sulla scena, in qualche modo, tutto questo è specchio. Quello che magari può sembrare strano – le acerbità di azione verbale, essere personaggio, immedesimarsi, parole che forse non trovano più spazio oggi nel teatro – in uno spettacolo come questo è normale venga percepito molto di più perché essendo un linguaggio non accomodante, non rassicurante, non educato, piuttosto vero anziché preciso, da più fastidio. Da una rappresentazione classica, dove vediamo in scena una cosa che non ci stimola, non ci chiama all’attenzione, alla discussione, a ritornare su un passo del libro, usciamo rassicurati. A me, invece, piace pensare che il teatro non sia una pausa rispetto alla vita ma sia la vita stessa e quindi si stia in scena con il pubblico veramente a discutere di noi. Questa è la consegna rituale.
Lo spettatore è sempre al centro dei tuoi pensieri?
Ogni volta che iniziamo una replica continuiamo a sistemare alcuni aspetti perché non è un linguaggio stabilito, è un principio empirico quello con cui ti relazioni a una platea. Noi per esempio facciamo prove con il pubblico presente in sala perché abbiamo bisogno di sentire cosa accade nelle relazioni umane e questa cosa – detto che ci impegnano al massimo a render concreto il fatto qual è – è sempre un racconto, è così a partire da Omero, e l’estetica non esiste, cioè il teatro non lo possiamo cristallizzare in una forma, è qualcosa che in quel momento avviene nelle relazioni tra le persone. C’è bisogno di un respiro, di un orizzonte che è quello di comunicare agli altri il nostro pensiero. Si può non essere totalmente d’accordo, ma si deve essere sinceri e scoprire qual è la necessità e questo noi lo facciamo sempre, ogni giorno prima di andare in scena. E il pubblico deve decidere di lasciarsi andare nel gioco, deve venire a teatro per vedere cose nuove, altrimenti diventa noioso, invece è bello sorprendersi, vuol dire che si è vivi. Quando vado a teatro preferisco vedere spettacoli non perfetti, anche sporchi, però che diano segno di vita. Per questo a volte ci si emoziona molto nel vedere il saggio finale dei ragazzi che fanno teatro a scuola perché c’è un sogno del teatro, una voglia di farlo che spesso diventa molto più poetico, e va al di là di quello che stavamo dicendo, con un’umanità che talvolta si rifiuta perché si diventa mestieranti e sembra che veramente qualcuno ci obblighi a fare teatro. Invece non ci obbliga nessuno.
Milano Teatro Sala Fontana 23-28 gennaio