Piccoli eroi simbiotici, quelli su cui si concentra il cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel, figure che scaturiscono dai margini e conquistano un posto nella realtà a partire dal loro bisogno di creare un punto di contatto e condivisione con gli altri. Sarà per questo che vengono un po’ tutti dai cerchi più esterni del mondo dello spettacolo: la coppia di artisti circensi di La pivellina, che li rivelò nel 2005, poi il domatore di leoni di Mister Universo (2016), ora Vera (nel concorso Orizzonti di Venezia 79) con la presenza docile e crepuscolare di Vera Gemma, figura fragile e sensibile che emerge dai margini più estremi dell’universo dei cinematografari romani, dove gravita in onore di cotanto padre Giuliano. Ombra di un immaginario costruito sulla bellezza, la scaltrezza, la destrezza di un eroe del cinema popolare italiano, Vera è colta da Covi e Frimmel con la determinazione un po’ rassegnata di una femminilità speculare: il cappello western e gli stivali che indossa nutrono una sagoma iconica che poi svapora nella forte presenza fisica di una donna che abita diversamente quella bellezza che, come dice all’inizio, era un’ossessione nella sua famiglia. La narrazione scaturisce con il solito approccio paradocumentaristico di questa coppia di autori austriaci dalla costante frequentazione italiana: stralci di verità che reinterpretano la realtà e la restituiscono sbozzata. Ecco allora che Vera ha una relazione con un giovane aspirante regista che la sfrutta malamente, ha una sorella che cerca di farle tenere i piedi per terra, ha un anziano autista dall’accento austriaco che le fa da padre…
Tracce di una vita amorosa che descrivono una quotidianità episodica in una tessitura narrativa a maglie larghe, basate sulla coerenza umorale e sentimentale dei personaggi, piuttosto che sulla naturalezza immediata delle loro azioni. Vera, come tutti i film di Tizza Covi e Rainer Frimmel, è espressione di un cinema performativo, costruito sulla dinamica simbiotica che instaura con le figure vere alle quali si approccia con innata curiosità. E allora l’intreccio che rende dinamica la narrazione è un plot che va in immersione nel sottobosco borgataro romano, quando Vera si lega a un meccanico vedovo e al suo bambino, che ha investito per disgrazia con la sua auto, diventando un po’ l’angelo custode di quella famiglia ai margini, senza dare ascolto a chi la mette in guardia sul pericolo che quella situazione si riveli una ennesima delusione sentimentale. Tutto scorre in una forma di cinema a mano libera che però miracolosamente restituisce una immagine della realtà e dell’umanità dei personaggi molto concreta, prima ancora che autentica. Ne è un esempio perfetto la bellissima scena al Cimitero acattolico romano, in cui Vera viene accompagnata da Asia Argento in un percorso identitario molto preciso, basato sulla necessità di identificarsi in se stesse per farsi identificare dal mondo non più solo come le figlie di un personaggio famoso. L’esito di tutto questo è il ritratto di una solitudine abitata con rassegnazione ma anche con lucidità esistenziale: bella testimonianza di un film che resta meravigliosamente in bilico tra la verità e la mistificazione, tra la vita reale e lo spettacolo che dà forma alla vita autentica.