La tentazione più forte è ovviamente quella di vedere Anna come la terza parte di una trilogia iniziata da Luc Besson con Nikita e poi proseguita con Lucy: tre racconti di tre assassine in cerca della propria umanità. L’aspetto più interessante diventa in questo caso non quanto vediamo sullo schermo, ma i film possibili creati dalla sovrapposizione delle tre pellicole e delle rispettive interpreti: Anna che deve compiere la sua prima missione in un ristorante come Anne Parillaud, o che inguainata in tuta nera si getta al collo degli avversari con delle prese a forbice, come Scarlett Johansson quando interpreta Vedova Nera nei cinecomic Marvel. L’esercizio è meno ozioso di quanto si creda, perché Besson cerca allo stesso tempo di onorare la tradizione che ha contribuito a forgiare e di immergerla nella contemporaneità. La vicenda è perciò facilmente riassumibile sebbene poi continuamente rimessa in discussione dai vari andirivieni temporali: Anna decide di fuggire da una vita miserevole arruolandosi in Marina, ma viene invece reclutata dal KGB come killer in Francia, dove si nasconde dietro l’identità della modella. Il tutto decisamente controvoglia, nella speranza di completare un lustro di servizio per poi ottenere la libertà. E quando la CIA la scoprirà, il meccanismo del doppio e triplo gioco sarà sempre a favore della possibilità di uscire da un sistema che tende sempre più invece a stritolare le sue pedine.
Da questo versante, la struttura non lineare che riprende le più recenti formule del cinema d’azione (e non dimentica pure la lezione del telefilm Alias) è vertiginosa non solo perché propedeutica ogni volta a mostrare la stessa scena da più prospettive temporali, affastellando colpi di scena, rewind e spiegazioni di come si è arrivati al punto. Ma anche per quella modernità infusa con convinzione e che trova il suo più bizzarro punto di fuga nella collocazione nei primi anni Novanta (gli stessi di Nikita) trasformati però in un’epoca molto più attuale con tanto di cellulari, laptop, pennette usb a vista, che si beano del proprio anacronismo. Besson, insomma, descrive uno spazio al contempo realistico e immaginario, in cui reiterare una Guerra Fredda che va avanti anche dopo la caduta del Muro e che, al più classico scenario dei blocchi rivali (gli Stati Uniti e un’Unione Sovietica evidentemente ancora in piedi, almeno a giudicare dai simboli evidenti con la falce e il martello), cerca la sua terza via attraverso una protagonista che nell’andirivieni di travestimenti e missioni, deve tracciare le coordinate umane del racconto. O forse qualcosa di più.
In effetti, stante il divertimento che comunque Besson governa come al solito, dirigendo l’azione con piglio operistico, con intermezzi a base di umorismo nero e improvvise esplosioni di violenza, l’impressione è che Anna in realtà voglia dirci di più. In questa storia di storie contenute tra loro (con la Matrioska a fare da esplicito leitmotiv visivo), e di realtà che scivolano fra il realismo e l’immaginario, c’è un elemento che fa da sintesi e sabotaggio al tempo stesso. Che è la scelta di Sasha Luss, supermodella apparentemente un po’ anodina, ma che – proseguendo il gioco delle sovrapposizioni – crea un collegamento anche con il precedente Valerian e la città dei mille pianeti, dove interpretava la principessa Lïhio-Minaa. Quindi un corpo capace di galleggiare fra il virtuale e il reale, magari uscito da una delle visioni extramateriche con cui Lucy piegava la realtà a piacimento. Un’eroina algida ma sofferente, sessualmente fluida, determinata ma sfuggente, capace perciò di incarnare bene questo mondo scisso, questa realtà “a metà” e il suo ruolo che è un cascame di Nikita ma anche un personaggio nuovo. A lei si contrappone la madre/padrona Helen Mirren, l’ufficiale che la recluta, la protegge, stabilisce con lei una strana solidarietà mascherata da inflessibilità, che è vicina e distante allo stesso tempo, che spezza in questo modo la dicotomia istruttore uomo/agente donna di Nikita ed è il frutto di una più tipica interpretazione mimetica da “metodo” (con tanto di pesante make up) dell’attrice inglese. Il tutto sembra a sua volta riflettere lo strano rapporto fra Besson e sé stesso, andato ben oltre quei dieci film al termine del quale annunciava di volersi ritirare, diventato a suo modo un sopravvissuto che deve barcamenarsi fra la necessità di successo in un mondo dove il suo nome non è più un “brand” in grado di vendersi da solo, e la golosità con cui continua a portare avanti i suoi progetti.