Lo diceva già tempo fa Jacques Tourneur: meno si vede e più si crede, riferendosi all’efficacia del fuori campo e dell’immaginazione per far leva sulle paure dello spettatore, vera e propria specialità del regista francese. Col suo Autopsy, André Øvredal riprende in parte questa sapiente tradizione, instillando nel pubblico tensione e angoscia per l’attesa di un evento fuori dal comune pur senza mai esibirlo chiaramente, suggerito da scricchiolii, ombre fuggevoli, porte che si aprono, temporali, e ovviamente cadaveri; elementi basici del genere,come gradini di una scala che conduce lentamente al livello più sovrannaturale della storia. Persino gli zombi, presenze carismatichedell’horror, restano sempre in penombra, poco visibili o lontani dalla vista. Allo stesso tempo però ne prende anche le distanze scegliendo di non censurare nulla dei procedimenti autoptici, e giocando anche con un pizzico di sano humor nero. Tutto ha origine dal basso, dalle profondità di un’abitazione in cui viene ritrovata una donna senza vita, diafana e quasi fantasmatica, a due passi dalla scena di un efferato delitto. Di chi si tratti, non lo sa nessuno. E ci ritroviamo poco dopo in un altro seminterrato, nei locali dell’obitorio Tilden gestito da Tommy, esperto anatomopatologo, e suo figlio Austin. Spetta a loro l’autopsia della ragazza, ribattezzata Jane Doe perché priva di identità, in superficie bellissima e immacolata, senza una causa di morte apparente. Dalla salma però emergono le tracce di un mistero per niente rassicurante.
Claustrofobico e incupito da una fotografia livida dai toni spenti, Autopsy è imperniato sulla “normalita” del macabro rito dell’autopsia. In questo obitorio situato nel sottosuolo distante dal mondo esterno come una bara sepolta, luogo dell’incubo e dei fantasmi personali di Tommy e Austin, il regista norvegese mette il corpo al centro della messa in scena, e non ci risparmia nessun dettaglio anatomico del cadavere di Jane Doe, sia fuori che dentro: lo esplora e lo rivolta, alla ricerca degli indizi che ogni organo nasconde. In un certo senso Øvredal fa quasi pensare al body horror, anche se qui l’orrore non risiede nell’assurdo o nel paranormale, né in metamorfosi al limite della scienza, ma sta tutto nella repulsione istintiva di fronte a un rito sì disturbante, ma in fondo banale, nella sua quotidianità. Senza scivolare nel sensazionalismo, Autopsy prosegue tra l’esibizione del corpo senza vita e il lento svelamento del suo enigma,attraverso l’inquietudine di ciò che accade nel corso dell’esame. Non conta quindi molto il pericolo, quanto invece la sua percezione. È un equilibrio essenziale ed efficace, con una tensione che si sviluppa e prosegue nonostante nulla si verifichi davvero. Purtroppo André Øvredal non riesce a sostenere questo gioco percettivo fino alla fine, rimanendovittima, nella seconda metà del film, dei luoghi comuni prima suggeriti con astuzia, poi platealmente esposti nella loro rappresentazione più consumata. Così mentre la bella e (in)animata Jane Doe si fa sempre più Vaso di Pandora, in odore di stregoneria, tutto deflagra e finisce per risolversi sbrigativamente tra ombre e cadaveri, più illusori che reali: perché nell’obitorio Tilden i mostri e gli spettri sono anche quelli che i personaggi si portano dentro, avendo forse più paura di se stessi, che di un morto che cammina.