Hollywood filma e intanto destini e ipoteche sulla realtà vengono posti in essere dietro la scena. I Coen tornano a raccontare il sistema hollywoodiano dopo Barton Fink, ma in Hail, Caesar! – che ha aperto fuori concorso la Berlinale 66 – la prospettiva fittizia della creazione non è quella tutta mentale di uno sceneggiatore in crisi, bensì quella assolutamente immanente del boss di uno studio, la Capitol Film, uno di quei producers che, nella Hollywood degli anni ’50, contavano le ore risolvendo i grossi problemi del sistema. Il suo nome è Eddie Mannix ed ha la coriacea presenza scenica di un sempre più indispensabile Josh Brolin. Al contrario dello sceneggiatore Barton Fink, che era ebreo, Eddie è cattolico e sconta il suo senso di colpa confessandosi, rosario in mano, più o meno ogni 24 ore, e rinunciando per amore della moglie alle tanto desiderate sigarette… Non che poi Eddie ci capisca troppo di cose della fede, di quel Cristo figlio di un dio uno e trino, sulla cui storia lo studio sta girando un grande dramma epico-religioso in stile La tunica dal titolo Hail, Caesar!: il meeting con i locali signori della fede (cattolica, ebraica, ortodossa e protestante) al quale si sottomette per garantire la correttezza del suo prodotto è un intreccio di dogmi e divieti da cui il nostro esce senza averci capito granché e noi con in tasca una delle scene più divertenti del film. L’altra è di sicuro quella in cui la montatrice Frances McDormand, sigaretta in bocca e foulard tra gli ingranaggi della moviola, gli mostra il miracoloso editing con cui ha reso passabile l’esordio in versione romantic comedy di Hobie Doyle (l’emergente e interessante Alden Ehrenreich), giovane star da western sospinta dalla produzione su un set improprio…
Il vero problema di Mannix è però la star di Hail, Caesar! Baird Whitlock, ovvero un George Clooney tontolone in pieno stile Coen Bros.: con ancora addosso il suo costume da centurione, Whitlock è stato rapito da un paio di comparse affiliate alla schiera dei comunisti di Hollywood, una cricca in stile Ninotchka che lo segrega in una fastosa villa sulla costa, chiedendo un lauto riscatto alla produzione. La spinta al plot viene da questo evento, che poi si innerva nello scriprt dei Coen con una coralità di netta maestria, insinuandosi nelle trame dei mille set allestiti negli studios della Capitol: c’è il western canterino di Hobie Doyle, c’è il musical con marinai e stellette interpretato da Burt Gurney (un Channing Tatum in perfetto stile Gene Kelly: straordinario), c’è la romantic comedy diretta dal raffinato regista europeo Laurence Laurentz (Ralph Fiennes), disperato perché si ritrova sul set, per volere dello studio, un improbabile damerino che ha le movenze da cowboy di Hobbie Doyle. I Coen distillano un sistema che risponde perfettamente all’immaginario dello studio system e lo incarna superando la soluzione di continuità tra posa in opera e messa in scena: lo spiazzamento dinamico del surrealismo tipico dei Coen dispiega la qui coralità di un universo puramente immaginifico, sicché il film è un susseguirsi di diversioni tra il plot noir e la riproduzione ironica del sistema hollywwodiano. La traccia viene dettata dai “commies” da operetta, che non faticano a convertire la star Whitlock al verbo marxista, molto meglio di quanto gli riesca di farsi convertire dal Cristo in croce sul set del kolossal che sta girando… E infatti, in transito com’è sulla realtà della scena tanto quanto sulla menzogna delle vite reali in atto, il film dei Coen è tutto una commedia giocata sulla fallacia delle posizioni reciproche tra la verità e la vita, tra l’apparenza e la sostanza.L’istinto di conservazione, al servizio del sistema, del pragmatico Eddie Mannix si traduce in una sorta di ancora di salvataggio per la realtà alla quale legare il vortice di illusioni che ruota attorno ai personaggi, dove ogni cosa è l’apparenza di una verità pronta a rivelarsi la quinta di un set che sta lì per essere smontato. Mannix governa e regola il sistema con un pragmatismo che risponde perfettamente alla fatalità dell’umano destino, dispositivo di realtà a capo di un olimpo di divinità che si sdoppiano tra vita e scena, mentre dal mondo incombe la presenza bifronte di Thora Thacker e della sua gemella Thessaly, doppia figura di giornalista (una gossip, l’altra no…) interpretata da Tilda Swinton, che scruta, osserva e racconta ai mortali segreti e menzogne delle star.