Lo slancio e la rinuncia, dice Christophe Honoré a proposito di Plaire, aimer et courir vite. L’inizio e la fine che si baciano, l’alba e il tramonto uno accanto all’altro, la vita e la morte che dialogano: l’istinto terminale che c’è in ogni primo amore è come la nostalgia dell’inizio che c’è in ogni fine e appartiene pienamente alla tradizione del (melo)dramma gay al tempo dell’AIDS. Honoré ci sta dentro sino al collo, applicando al genere una scansione letteraria e una trasparenza dichiaratamente autobiografica, che rendono il film una strana miscela di schematismo e istinto, un intreccio di luoghi comuni del genere e inattese torsioni rappresentative. A iniziare dalla definizione del baricentro narrativo del film, che tende a un insolito spiazzamento tra protagonista e focalizzazione: tutto ruota attorno ad Jacques, scrittore di fama, gay sieropositivo, padre di un figlio condiviso con una donna che però non è sua moglie. Il suo ego governa la sua realtà, si impone con dinamica funzionalità narrativa elaborata sull’esposizione sentimentale, sulla personalità plastica. Ma poi Honoré sembra focalizzare il film su un altro personaggio, Arthur, giovane di provincia dalla vitalità tanto straripante quanto indefinita, una figura più pulsionale che reale, quasi un’idea di cui sappiamo poco, se non che è vivace, intelligente, affascinante e pieno di vita. L’esatto opposto di Jacques, il quale annaspa invece piacevolmente nel culto di sé che sente ormai esausto, facendosi cullare dalla solidità di Mathieu, il suo vicino di casa ben più maturo anche anagraficamente di lui, intellettuale gay della porta accanto (interpretato con impagabile ironia da Denis Podalydès) che gli fornisce supporto nella gestione del figlio e solidità nella cura delle sue pene esistenziali. Honoré fa ruotare questi tre personaggi come dischi su un piatto, ognuno con la sua musicalità, ognuno col suo numero di giri al minuto, che sono ben altra cosa dai 120 battiti al minuto portati l’anno scorso sulla Croisette da Campillo: anche lì, come in Plaire, aimer et courir vite, il setting è fissato ai primi anni ’90, ma qui la scena sociale è drasticamente tagliata fuori (anzi in una battuta di dialogo ci si fa bonariamente beffe di Act Up…), tutto ruota su un (auto)biografismo che insiste su un baricentro diffuso ma collocato sulla soggettività del dramma, sull’identificazione nella prima persona. Ché l’AIDS resta pur sempre il convitato di pietra di queste biografie, Jacques lo tiene accanto nel ricordo di Pierre, un suo amore finito, un ragazzo che il male sta spingendo verso la fine. Lo tiene in casa con sé, Jacques, così come tiene a distanza Arthur, che invece ha conosciuto durante un viaggio di lavoro in provincia e da cui è attratto, affascinato, forse non propriamente innamorato. Arthur arriverà a Parigi solo più avanti, ma Jacques lo eviterà ancora una volta, perché intanto la sua salute sta precipitando, le cure sono pesanti e il tempo sta scadendo…
Ecco, il film è come se fosse scritto su una nube, volatilizza ogni traccia definitiva di una narrazione che si suppone autobiografica (“volevo far rivivere lo studente che ero a quell’epoca e far rivivere quella figura di scrittore che avrei sognato di incontrare, cosa che non è mai successa davvero” dice il regista) ma poi slitta sul piano letterario di una costruzione eminentemente dialogica: battute forti, sequenze perfettamente scritte. E’ come se il tutto fosse pensato in una dimensione partecipata della narrazione, come se Honoré avesse voluto parcellizzare il protagonista in tutte le sue età passate presenti e future: c’è Jacques e di fronte a lui ci sono i fantasmi della sua giovinezza trascorsa (Arthur), della sua possibile vecchiaia (Mathieu), della sua malattia (Pierre). Il finale di tutto questo non può che essere scritto nel segno dell’annullamento, nella definizione letteraria di uno spazio unico e assoluto in cui Jacques si conclude e si definisce in funzione del sentimento terminale che ha interpretato per tutto il film. Honoré è in questo senso dolcemente teorico, tanto quanto appare nella scrittura plasticamente letterario. Il ritmo e il sentimento del film restano anche meglio a distanza di visione, quella che si soffre è semmai la grammatura performativa della messa in scena, la definizione troppo sagomata del protagonista, il gioco troppo equilibrato dei pesi. E la scelta di una presenza fortemente performativa come quella di Pierre Deladonchamps, in caduta libera dallo Sconosciuto del lago, non facilita il compito.