Un paese svaccato come il nostro, con un’etica così risibile, si merita un gigante come Moretti? C’è da chiederselo dopo avere visto Mia madre, capolavoro che ci suggerisce come il vero gesto politico oggi sia portare la pasta alla mamma in ospedale, occuparsi di sentimenti e persone. Il regista afferma di non comprendere la realtà che lo circonda. Non scherziamo, forse grazie proprio alla motivazione autobiografica, Mia madre si impone come illuminata e trattenuta parabola del vivere contemporaneo. Lo sguardo di Moretti sul vivere è leggero e inesorabile, ma lo scopriamo anche addolcito da una nuova pietas, la macchina da presa studia cose e persone (compreso un “altro” se stesso) con diligenza da entomologo e le racconta con severa partecipazione. Ormai la lotta di classe è solo una fiction e gli operai sullo schermo sono lì a testimoniare una desolante realtà sociale e nulla più. Che la dimensione esistenziale espressa in Mia madre sia, senza ombra di dubbio, quella della regista alter ego è un indizio esemplare che riempie di luce teorica il film e lo ispessisce del relativo, indispensabile tessuto argomentativo (l’aleggiare della morte, l’assenza della figura paterna, gli ostici rapporti di fratellanza, la nevrosi lavorativa). La programmatica solitudine della cineasta Margherita, che sembra impegnata a lasciare cadere poco a poco tutti i suoi legami con la vita esterna, coincide con la storia della regista e della sua opera. Sembra quasi che la solitudine sia una condizione umana progettata a favore del suo cinema.
Con il passare del tempo l’opera di Moretti si è fatta più universale, il regista sembra avvertire la necessità di un’espressione più piena e meno generazionale, di temi e forme più complesse, di strutture nuove: qui si riflette sulla condizione umana. Non c’è più nessuna compressione delle emozioni, anzi sono dispiegate e vanno a colpire dritto al cuore lo spettatore. Ma il punto partenza è sempre il particolare di una vita che sprigiona inaspettate epifanie, che coglie una luce vera e nuova e si illumina di una verità più chiara, giusta, universale (“Le storie non nascono dall’aria. C’è sempre una scintilla” scrive Carver). E al cospetto della morte compare anche la forte aspirazione simbolica di alcune sequenze, basta ricordare i libri della madre rinchiusi nelle scatole e divenuti inutili come lo studio del latino.