A dieci anni dalla pubblicazione dell’omonimo romanzo firmato da Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, il film realizzato da Yasemin Şamdereli (già autrice del convincente Almanya) in collaborazione con Deka Mohamed Osman, prende ispirazione dal vissuto di Samia Yusuf Omar, “lo scricciolo somalo” che nel 2008, a soli 17 anni, partecipò alle Olimpiadi di Pechino nei 200 metri di atletica leggera arrivando ultima tra gli applausi; il 2 aprile del 2012 Samia morì nelle acque del Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Italia, una vita migliore e soprattutto le Olimpiadi di Londra. Verranno alla mente tanti titoli appartenenti al biopic sportivo e capaci di restituire la forza e la vivacità di questo film che, pur con tutti i suoi limiti e nonostante tutte le insidie produttive che ha affrontato, è riuscito nel difficile compito di trasporre al cinema un vissuto pieno di desiderio ma tragico e divenuto presto segno dei tempi e mito del tempo, simbolo di un’umanità spezzata. Sorprende inoltre come nel silenzio risuoni una domanda implicita: ma le tante espressioni culturali, e più nello specifico le arti come letteratura e cinema dialogano davvero ancora con la realtà? Hanno ancora la forza di contrastare le ingiustizie, le intolleranze e i fanatismi attraverso la narrazione delle storie di esseri umani in viaggio? E quanto questo aspetto interessa al pubblico (europeo)? Un film come questo è la dimostrazione che è ancora possibile credere nella fertilità dell’incontro tra pagina scritta e immagine in movimento, strumenti per una cultura della pace, dell’incontro, del dialogo, soprattutto in quei luoghi chiamati sale cinematografiche.
Perché se si devono scomodare categoria importanti, allora è il caso di riferirsi a tutto quel cinema della salvezza che si è sempre fatto portatore di uno sguardo puro e di immagini pulite, magari con concessioni illustrative e didascaliche, magari no. Perché non è mai “soltanto una corsa” e non è mai semplicemente un viaggio, piuttosto è qualcosa che innerva il tessuto umano dell’aggrovigliata esistenza di fronte alla quale non possiamo mostrare indifferenza. Etica dello sguardo, antropologia della visione, cinema politico tout court, questo è Non dirmi che hai paura, risultato di un’operazione fondata sull’antispettacolarità e la creazione di sogni e passioni. Si viene alla vita senza deciderlo, ma non si diventa uomini senza deciderlo. Samia deve averlo compreso giovanissima, tra una corsa e l’altra, districandosi tra rigide regole, controllo armato e spettro di Al-Shabaab, gruppo militare il cui nome paradossalmente significa “La gioventù”. Ci sono povertà e incertezza in casa sua ma non manca l’amore, la fiducia, uno sguardo rivolto al futuro, come dovrebbe essere quello dei giovani. Ma perché vuoi partecipare a quella stupida corsa? Le chiede il fratello. Posso farcela, risponde lei orgogliosamente. L’umano è il frutto di un percorso, di un viaggio, di un’avventura, di scelte e le gambe, come il cuore e lo sguardo di Samia custodiscono e coltivano questa preziosa verità. Mise il cuore dentro le scarpe e corse più veloce del vento. Quanti racconti africani hanno riempito di record e risultati straordinari la storia dell’atletica? E allora guardate con attenzione questo piccolo film, a questo punto viene da scrivere “miracolosamente”, venuto alla luce a distanza di dieci anni dalla pubblicazione dell’omonimo romanzo di Giuseppe Catozzella, ai tempi vincitore del Premio Strega giovani e immediatamente ritenuto osservatore speciale di una condizione umana che impattava tragicamente con leggi e sistemi chiusi dei paesi del Mediterraneo (ma non solo), tanto che l’ONU lo nominò Ambasciatore dell’Agenzia per i Rifugiati.
Guardatelo bene e attenzione a non scivolare sulla buccia di banana del paragone con altri titoli: per analogia altri film o libri potrebbero giustificare questo racconto perché simile, forse già visto, forse già sentito. Attenzione a non ridimensionare l’aggrovigliata trama del vissuto umano solo perché recursiva, solo perché risultato di un differente sforzo produttivo. Non è Io capitano di Garrone o Flee di Jonas Poher Rasmussen di cui forse è complementare per i risvolti politici, gli intrecci culturali che si riflettono nella complessità di un territorio che è sempre specchio e schermo di una drammatica scena umana. Basta prendere la scena della seconda gara vinta da Samia di cui non vediamo altro che uno stadio e alcune figure che si stagliano davanti ai suoi occhi come corpi imponenti. Oppure basterebbe fermarsi a rileggere le sequenze dedicato al viaggio che culmina prima a Tripoli e poi nel Mediterraneo: qui c’è tutta la dimensione autentica e genuina di questo film così denso di emozioni e privo di spettacolarizzazione gratuita. Peraltro, questo titolo che sta girando e conquistando il mondo con il potentissimo titolo nominale Samia (ma che avrebbe dovuto intitolarsi Little dreamers), presentato a Tribeca (Menzione speciale della giuria) e a Monaco (dove si è aggiudicato il premio del pubblico) che ricorda il valore particolare di una trama universale, esplora la sostanza dei sogni, delle grandi ambizioni, di una virtù profonda come la speranza che pone tutti gli esseri umani alla stessa altezza del cielo, in attesa di un nuovo mondo, di un orizzonte, di una salvezza. Il film termina sulle note e sulle parole di una dolcissima canzone cantata da Hodan la sorella di Samia Yusuf Omar: una poesia che abbraccia una vasta e complessa gamma di affetti capace di tradurre una relazione fondata su un amore invincibile, tenace e più forte della morte. Inoltre, pur lavorando in sottrazione e rinunciando agli effetti di qualsiasi spettacolarizzazione, tanto nella rappresentazione del dolore quanto in quella del gesto atletico, inevitabilmente si tratta di un film che fa emergere riflessioni sul rapporto tra diritti civili, libertà, emancipazione ed espressione sportiva come, in tempi recenti ha saputo fare anche un titolo come Tatami di Zar Amir Ebrahimi e il regista Guy Nattiv, per analogia, titolo efficace per comprendere direzione e senso del film di Şamdereli e Osman.