“Brian voleva che la storia fosse meno complicata, quindi alcuni dei miei domino sono stati rimossi, creando una trama più semplice e lineare, che meglio si adattava alla sua visione del film”: nelle parole dello sceneggiatore Petter Skavlan già si inizia a intravedere il particolare conflitto che ha attraversato la nuova pellicola di De Palma, il palleggio costante fra una storia che nasceva sotto il segno di un di più e un autore che chiedeva invece di asciugare e togliere. Com’è noto, il film finale è passato per varie traversie produttive, i minuti tolti sono stati più del dovuto, tanto che il regista americano ha infine disconosciuto il risultato. Peccato perché in realtà, ciò che resta è comunque molto interessante e gioca proprio sul confine fra quel di più inizialmente invocato e la sintesi del risultato che giunge fino a noi. Si parte quindi da una narrazione complessa, in cui si cerca di unire l’indagine personale del poliziotto danese Christian (cui muore un collega durante un’operazione di apparente routine) e l’intrigo internazionale che coinvolge la CIA e alcuni militanti dell’ISIS in cerca di visibilità mediatica. Già in questi presupposti si intravedono le logiche depalmiane del ribaltamento dei punti di vista e della voglia di esprimere nonostante tutto uno sguardo morale che illumini la falsità del mondo. L’operazione di “contenimento” del magmatico plot asciuga dunque le articolazioni narrative per concentrarsi allo stesso tempo su una moltiplicazione delle verità nascoste e delle falsità esibite. In un gioco di specchi sempre più serrato, nessuno si rivela per quello che realmente è, mentre ogni situazione esalta la riflessione metanarrativa sulle potenzialità dei linguaggi, ispessita dalle possibilità offerte dalle nuove tecnologie.
Tornando agli spunti già disseminati nel suo seminale Redacted, infatti, l’autore affronta ancora una volta lo spezzettarsi della verità nell’epoca della proliferazione dei dispositivi di riproduzione della narrazione: cellulari, droni e siti internet. Prevale in questo senso la logica dell’assegnazione dei punti di vista, resa ancor più elettrizzante dall’articolazione continua fra il primo e il secondo piano, fra quanto è direttamente visibile e quanto subdolamente si nasconde fra le pieghe del reale. Lo scontro fra Bene e Male, infatti, si snoda fra un gruppo segreto, ma che cerca l’attenzione globale con un assassinio di massa che sia ripreso dai media, e due indagini parallele condotte in segreto da un poliziotto destituito dall’incarico e da un killer assoldato dai servizi segreti americani in Europa. La logica della collisione delle verità in un mondo di menzogne, insomma, non può che avere come estrema conseguenza che a decidere le sorti del pianeta siano, in sostanza, dei personaggi non legittimati dalla piena visibilità. Nemmeno troppo in filigrana, De Palma attua così una scelta di campo che lo allontana dal mero divertissement del precedente Passion – da lui stesso definito un esercizio di stile – per un ritorno al reale, comunque mai disgiunto dal gioco sui piani della narrazione: si veda la sequenza insieme tragica e ironica della strage al festival di cinema (quasi un ribaltamento in pubblico degli intrighi su cui iniziava Femme fatale). Ciò che resta fra le maglie è perciò più di un incidente di percorso, segno di un’autorialità che emerge anche fra le traversie produttive, comunque visibili nella recitazione poco controllata degli interpreti e nella resa frettolosa di alcuni passaggi, che fanno oscillare il film tra il TV-Movie d’annata e il thriller di grande resa spettacolare. La doppia verità di Domino la si ritrova in fondo anche in questi fuoricampo, così come nella campagna pubblicitaria che cita futilmente Il trono di spade per la presenza di Nikolaj Coster-Waldau e Carice Van Houten. Tanti punti di vista su un’unica storia, che ha cercato fino alla fine di onorare il suo iniziale di più.