Prima di guardare Deadpool pensi che sarà il solito film Marvel, ben fatto, piacevole, scontato. E invece, già alle prime scene stupisce per la freschezza e per quel tocco di arroganza che non si prende sul serio, in assoluta aderenza al fumetto omonimo creato da Fabian Nicieza e Rob Liefeld e pubblicato a partire dal 1991, naturalmente dalla stessa Marvel Comics. Ryan Reynolds era reduce dall’interpretazione (pulita) di Green Lantern, paladino della giustizia, protettore della Terra. Stavolta deve reinventarsi, togliere i panni del pilota fuoriclasse, predestinato a salvare l’umanità, per indossare quelli di un ex militare irriverente, misogino e attaccabrighe, che diventa (suo malgrado) un supereroe. In realtà ha molto di “super” e quasi nulla di “eroe”: l’identikit di Deadpool va contro il cliché superomistico al quale siamo abituati, ribaltandolo e prendendosene gioco spesso e volentieri. Il risultato? Uno dei personaggi più sarcastici, maleducati ed egocentrici che la Marvel abbia portato sul grande schermo, talmente insolente che fatichi a credere che la casa madre lo riconosca, eppure…funziona!
Non solo Reynolds si è calato perfettamente nel personaggio, azzeccando i tempi e il tono di voce per rendere credibili battute “borderline”, ma è anche stato bravo a enfatizzare il lato anarchico del personaggio che, pur dotato di poteri innaturalmente eccezionali, non ha alcuna intenzione di uniformarsi a gruppi di suoi simili, come gli X-Men, che pure lo corteggiano. Perché questi vogliono salvare il mondo, mentre in Deadpool non dimora alcuna simpatia per l’umanità né alcuna attenzione per i suoi problemi. Dialoghi taglienti, sequenze ironiche e ben congegnate, montaggio solo a tratti adrenalinico che si accompagna a ritmi sincopati, segnali meta-cinematografici: Deadpool, “il mercenario chiacchierone”, sa di essere in un film – come dimostra il fatto che guardi dritto in camera e si rivolga al suo pubblico – e su questa consapevolezza gioca di continuo. Un modo per spezzare il ritmo, ma allo stesso tempo mantenere alta la guardia intorno a una storia per il resto piuttosto lineare,con una trama essenziale, in cui la storia è più rievocata a parole che per immagini. L’elemento formale meglio utilizzato, ben integrato anche con le frequenti “soggettive” del piano narrativo, è il flashback, che permette di ricostruire passo dopo passo la nascita di uno sfacciato “kickass”. E di rivelarci in un crescendo di consapevolezza quella che forse è l’intuizione più geniale del film: non esiste una vera e propria minaccia imminente che incombe sul mondo (o su una parte di esso), come vorrebbero le regole del genere, ma ci troviamo di fronte a una vendetta personale, un regolamento di conti condotto in maniera ossessiva da colui che fu Wade Wilson, e che ora è Deadpool, nei confronti di Francis Freeman, responsabile della sua mutazione. Chi è costui? Oltre che il villain di turno, che resta avvolto da un’aura di mistero, Francis Freeman alias Ajax rappresenta (come personaggio e come attore, l’anonimo Ed Skreyn) forse il punto debole del lavoro diretto da Tim Miller. Il regista (al debutto nel lungometraggio, dopo aver fatto grandi cose nei corti e come supervisore degli effetti speciali in alcune produzioni hollywoodiane) a tratti dà l’impressione di preparare una qualsivoglia parentesi per delinearlo meglio, ma lo lascia infine nel limbo; e, così “confezionato”, non assume la statura di “grande cattivo” nè sembra poter convogliare su di sè tutto l’odio che Deadpool comunque gli indirizza. Forse, tuttavia, è questa la maniera giusta per far risaltare ancora di più la doppia natura di Deadpool, eroe e antieroe, perfetto protagonista, ma anche antagonista di se stesso. Una tiepida luce di speranza si accende nel finale, ma forse è solo un riflesso beffardo: Wade impara a convivere con il suo avatar e torna alla vita normale (?); quanto ad occuparsi dell’umanità, avrà tempo per apprendere i fondamentali in compagnia dei nuovi amici X-Men. Sempre che ne abbia voglia, e con Deadpool non è detta l’ultima parola.