Dire il sesso: alla Berlinale72 Un été comme ça di Denis Côté

La realtà non è mai un dato di fatto nel cinema di Denis Côté, è più che altro un contenitore atto a tenere insieme le tensioni astratte dei suoi personaggi. Giochi spesso terribilmente fisici, anche materici, che si collocano in spazi molto definiti, conclusi, performativi. In questo senso Un été comme ça (in Concorso alla Berlinale 72) è un perfetto paradigma del suo cinema, con uno spazio concluso che si offre come cassa di risonanza per il gioco intrusivo cui sottopone un pugno di figure femminili, chiamate a dare forma plastica ai loro vissuti. L’estraneità dal mondo, o comunque la forma distonica della loro presenza, è il dato di fatto da cui, in un modo o nell’altro, questi personaggi nascono: è così anche per Geisha, Léonie e Eugénie, le tre donne che qui si trovano immerse nello spazio riabilitativo di un soggiorno terapeutico nel cuore verde del Québec. Sono segnate da un disordine della personalità che si esprime in una sessualità compulsiva e nell’arco di 26 giorni di isolamento dovranno prendersi il tempo di guardare in se stesse e trovare forse un nuovo equilibrio. Il loro riferimento è Octavia, una psicologa tedesca dell’Università di Düsseldorf, che, con l’assistenza di Sami, un educatore algerino dall’aria docile e impenetrabile, l’unico uomo in scena, orienta il loro percorso facendo a sua volta i conti con i fantasmi della sua vita privata.

 

 

Il film si apre sul setting della residenza terapeutica, giocato da Denis Côté sull’insistenza di piani stretti sui volti che imparano a conoscersi, dettano le regole, sfidano i ruoli: tutta una tensione costruita sul gioco seduttivo e dissuasivo che opporrà le tre ragazze alle figure deputate a contenerle. Il gioco scenico avrà una valenza molto letterale, costruita sulla verbalizzazione dei vissuti, sull’evocazione dei fantasmi più intimi di ognuna delle tre ragazze: ricordi di un modo d’essere al mondo mediato esclusivamente dalla sessualità, trascorsi che però le tre donne non esorcizzano ma sembrano anzi solidificare in una consapevolezza del loro essere sessuale da cui non intendono liberarsi. L’immersione nella realtà, il ritorno alla vita che si offre loro nel giorno di libera uscita si traduce in un confronto con la materialità dei loro fantasmi sessuali (Lèonie si reca dal suo master per una seduta di bondage, Geisha si offre ai desideri del suo ragazzo, Eugénie cerca rifugio per la notte nel vano di un camionista. Il punto d’arrivo è sostanzialmente il fallimento dell’intervento terapeutico, opposto alla conquista di una relazione autentica e sana tra tutti i convitati di questo ritiro poco spirituale e molto fisico al quale abbiamo assistito.

 

 

Denis Côté chiaramente parte dall’idea di una tematizzazione del sesso che nasce dalla presa d’atto della rimozione cui il tema è soggetto nella cultura e nella società québécoise e come sempre il suo cinema si innerva con atona empatia nello spirito introflesso e distaccato che nutre quella parte di Canada. La disfunzionalità tra il dire e il mostrare alimenta ovviamente la messa in scena, che si inarca sull’impropria relazione tra le ossessioni delle protagoniste evocate nelle loro parole e l’imparzialità esibita dell’ascolto da parte di Octavia e Sami. Ciò che evidentemente manca è proprio la verità dello sguardo che i due terapeuti restituiscono al corpo femminile di quelle ragazze fatte di desiderio sessuale, perfettamente coerente con l’approccio intellettuale e narrativo del regista. Tanto che la verità più vera a queste tre donne la dirà, nella sua semplicità, la cuoca, quando nel prefinale augura loro di imparare a guardarsi con occhi diversi da quelli degli uomini, che le vedono come meri oggetti sessuali.

 

 

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