L’impressione che si ha dopo aver visto Fai bei sogni, il film di Marco Bellocchio tratto dal romanzo omonimo di Massimo Gramellini, è che si tratti (e si sia trattato nella preparazione e sul set) di un’occasione per ognuno di confrontarsi con i luoghi più intimi dei propri pensieri e tornare indietro a rimettere a posto i conti con il passato. Eppure non si può proprio parlare di autobiografia, ma di un’operazione che dalla storia del noto giornalista si espande e si apre a coinvolgere i gesti intorno. È sentito e toccante, sussurrato e insinuante. Ma soprattutto è una nota stonata ripetuta per tutto il film, come quando un disco sul piatto non ne vuole sapere di andare avanti. E così il bambino Massimo si porta oltre con la vita ma non si allontana mai dal rumore che l’ha svegliato la notte in cui sua madre è morta. Una storia d’amore che si interrompe improvvisamente, senza spiegazioni, lascia un vuoto profondo e spinoso. Lascia lo sguardo perso verso nessuna direzione, interrogativi sospesi senza destinazione. Così Bellocchio sceglie di elaborare questo racconto semplice, disseminandolo di percorsi, creando una fluida accelerazione nell’alternanza tra presente e passato. Non c’è nulla da spiegare o rivelare, semplicemente il desiderio di portare il cinema dentro confini imprecisabili. Si procede alla cieca e non è detto che quello che si vede sia reale o il trasformarsi di un’idea in immagine. È uno stratagemma centrale in questo film popolato di fantasmi. Chissà da dove vengono tutti questi personaggi che parlano, ballano, piangono, e si pongono davanti a Massimo (nelle sue diverse età), frontalmente, in perfetto controcampo. Chissà dove andranno.
Se vediamo Fai bei sogni con gli occhi del suo protagonista (un ipnotico Valerio Mastandrea), ci sentiamo dilaniati tra ciò che si vede e ciò che non si sa di non sapere. Tutto gli scorre davanti agli occhi come su un televisore (e proprio i programmi televisivi, l’estetica anche sonora contamina il film), come rivivere un sogno dopo che ci si è svegliati. Con quella distanza indefinibile tra sé e tutto il resto, chiusi in una bolla di sapone che ci riporta sempre indietro, ai pomeriggi spensierati tra compiti e canzonette, gli interminabili viaggi in tram, l’estrema felicità, l’estremo smarrimento. Dentro la sua casa da bambino, Massimo, dopo le esperienze romane come giornalista sportivo, e la guerra in Bosnia, torna da giornalista “addetto” alle lettere dei lettori. E si perde in quel corridoio lungo, nei colori appassiti degli anni Settanta. Tra le carte e le foto che spuntano fuori, la televisione sempre accesa e la mente che vaga alla rinfusa. I piani si mescolano, tra gesti quasi misteriosi. E i sentimenti del protagonista si accavallano nella sua immobilità fisica. Dietro questo caos sta la cifra di un film difficile da assimilare ad altri dell’autore. Raccontare il processo di un cambiamento tanto intimo, ha significato per Bellocchio uno sguardo spogliato di quella rabbia che ha studiato meticolosamente per tutti questi anni. Perché non di un salto nel vuoto si tratta, ma di un tuffo dentro se stessi e nella folla dei pensieri accantonati. Come può il cinema mostrare il passo astratto di un uomo qualunque? Servono il cinema, Belfagor, l’ironia dell’horror evocato e la dissoluzione strategica del melodramma e della nostalgia.