Gli amori di Suzanna Andler di Benoît Jacquot e l’inconsistenza dei corpi

Una donna (Charlotte Gainsbourg) in crisi esistenziale. Una ricca borghese degli anni 60 che si ritrova a fare i conti con il passato, e con il presente, da mattino a sera in una villa in Costa Azzurra che forse diventerà la sua dimora per le vacanze estive. Per la prima volta nella sua esistenza ha un giovane amante (Niels Schneider) con cui la notte precedente ha bevuto molto. I due sono stati avvistati insieme, glielo dice l’agente immobiliare (Nathan Willcocks). E anche Monique (Julia Roy), l’amica del posto che nel pomeriggio la raggiunge. Da anni Jean, il marito, la tradisce (è successo anche con l’amica) e lei ne è consapevole: «Sono tra le donne più tradite della Costa Azzurra», soprattutto dopo la nascita dell’ultima dei loro figli, Irène, che ha quasi 9 anni. Una donna che forse ha deciso di vendicarsi («Ti serviva un amante, ne hai uno adesso», le fa notare l’amante) ma che non sembra saper scegliere, in balia di marito, figli e amante. È Suzanna Andler (in italiano diventato più didascalicamente Gli amori di Suzanna Andler) di Benoît Jacquot, già assistente di Marguerite Duras, che sognava di portare su grande schermo la pièce della scrittrice.

 

 

Presentando il film in anteprima all’ultimo Torino Film Festival ha rivelato: «È uno dei testi di Marguerite Duras che preferisco e che lei non amava particolarmente. Era spesso oggetto di discussione tra di noi. Un giorno me lo ha donato affinché ne facessi un film per provarle se avevo torto o ragione. Sono sicuro che avevo ragione e anche lei sarebbe stata d’accordo. Purtroppo mi sono scordato di averle promesso di farlo e mi è tornato in mente solo di recente». Si parla molto in questo film, direttamente o per frasi sentite e riportate, si analizza la situazione femminile, quanto la conoscenza dell’altro sia limitata (Jean descrive Suzanna come «inconoscibile se non attraverso il desiderio»), come i rapporti duraturi inevitabilmente si logorino e si diventa «quasi inavvicinabile» dopo che si è diventate madri, del fatto che si è proprietà degli uomini (che fanno scommesse sulle conquiste femminili o parlano di mogli che un giorno cederanno) e di come l’agiatezza sia un vincolo nei legami («A te piace il denaro?» «Sì». «Per questo stai ancora con lui?» «È possibile». O ancora: «Cos’ha che io non ho?» «È ricco»). Ma soprattutto si mente molto, in particolare Suzanna: «Quello che mi hai detto non è tutta la verità», le fa notare l’amica, e raccontando dell’incontro a Jean lei stessa dice: «Ho parlato tanto con Monique. Ho detto molte bugie su tutto». E Jean ripete: «Io credo soltanto a te». O ancora: «Mi sono fermata qui per suicidarmi, morire per non dover più mentire». Quindi se è impossibile stabilire una verità – ma non è questo che importa – rimangono solo frammenti, possibili interpretazioni dei rapporti umani.

 

 

Vicenda a huis clos (a parte una discesa sulla spiaggia sotto la villa) che rispetta l’unità di tempo – scandito dalla domanda ricorrente che pone Suzanna («Che ore sono?» Le 11.30, poi le 3 e 1/2, le 5 e 10 e infine le 7) e di spazio (l’imponente villa che si fa personaggio) con il solo inserimento di un flashaback dal passato – «È la prima volta che parliamo del passato», dice lei all’amante e poco dopo si vede la metropolitana che passa in alto e che i due amanti hanno guardato la prima sera che si sono dati appuntamento – e di una visione allucinatoria dell’amante spinto giù dalla balaustra su cui è seduto attraverso la soggettiva di Suzanna che gli si avvicina alle spalle.
Come dice il professor Jean-Paul Dufiet, tra i massimi esperti di teatro contemporaneo francese, «il teatro di Marguerite Duras è desincarné, non sono dei personaggi, ma delle parole nello spazio, senza corpi». La stessa impressione si ha vedendo il film di Jacquot dove i personaggi (nonostante l’indiscutibile bravura di Charlotte Gainsbourg) sembrano confinati alle loro funzioni (la moglie, l’amante, l’amica, il marito), rigidi (anche nell’abbigliamento), quasi delle marionette che ripetono le parole di un disco già rotto. E se tutto questo è voluto (il marito rimane una voce al telefono, dell’amante solo alla fine si sa il nome, Michel Cayre,  anche se tutti conoscono la sua identità), rimane una sensazione di pesantezza nell’architettura del gioco, a tratti respingente. E allora le parole prendono il sopravvento ma, purtroppo, di carne, ovvero di passione, non vi è traccia.