E’ un cinema che si ritrova spesso fuori dai margini, quello di Angela Schanelec, tarato sin dal principio su un rapporto dinamicamente osmotico tra le geometrie variabili delle città e le derive empatiche con gli elementi della natura. Orly, Marseille, Plätze in Städten, Passing Summer sono tutti film che liberano gli stati di indefinitezza esistenziale dei personaggi (quasi sempre femminili) nel dialogo astratto tra i corpi e gli spazi che attraversano, fallendo le relazioni umane nel gioco introflesso delle emozioni. I Was at Home, but… (“Ich war zuhause, aber…”), il suo nuovo film (tra i migliori e più incompresi del Concorso della Berlinale 69), tiene fede a questa linea tematica, anche se si offre come opera più tetragona rispetto alle sue precedenti, meno propensa a lasciar risuonare nella sua intera struttura il gioco vibratile degli spazi. Al di là del titolo, chiaramente debitore di Ozu, questa volta la Schanelec sembra partire da coordinate bressoniane per innestarle nel corpo di figure che vivono un disadattamento esistenziale quasi garrelliano: tra fughe statiche, impaziente annichilimento e verbalizzazioni emotive, il film pone uno di fronte all’altra Philip, un adolescente che cerca se stesso nelle fughe fuori dalle strutture sociali, nella poesia a corpo libero vissuta nella deambulazione esistenziale, e sua madre, Astrid, che invece corrisponde con fastidio a un criterio di strutturazione, a un gioco di relazioni affettive costituito.
Il primo nasce al film nel segno della fuga, scappato di casa, disperso nel bosco da cui tornerà sporco ma sano e salvo: la fiaba immaginata dalla Schanelec è astratta nelle azioni marcatamente bressoniane di un asino, di una lepre in corsa e di un cane selvatico che le dà la caccia. Il film si apre e si chiude su queste creature, in mezzo c’è l’implosione emotiva di Astrid e la sua relazione col figlio e la sua sorellina. Astrid è una donna che non gestisce la sua condizione familiare con razionalità, vittima di una impazienza che la spinge alla contrapposizione rispetto alle strutture: la casa, la scuola, le relazioni con gli altri. Philip è invece presenza in bilico su se stessa, incarnazione dell’eterno adolescente della amletica tragedia che a scuola gli insegnanti gli fanno interpretare: re, regina, Ofelia, coppe, corone e ferri di cartone che si incrociano nella recita scolastica. L’essere e il non essere sono la condizione classica dei personaggi della Schanelec, che non transigono sulla loro condizione umana ma transitano tra differenti stati esistenziali, tutti aperti a un mondo che si contrappone a loro, perennemente chiuso. I Was at Home, but… si muove su tutto questo con una durezza estetica che può risultare respingente, soprattutto se si considera la tradizione del cinema di questa regista, sinora molto più fluido, sospeso su una dimensione (anche sonora, acustica) più profonda e meno abbacinante. Ma la Schanelec in realtà sta sempre fissa sul suo filmare che interroga il rapporto tra ciò che è statico e ciò che si muove, tra la fluidità dei suoi irrequieti personaggi e la imperturbabile disponibilità dei luoghi ad essere attraversati.