Il colibrì di Francesca Archibugi: il tempo dell’immobilità senza qualità

Se il vero tema di fondo del nuovo film di Francesca Archibugi – e sicuramente anche del libro, che chi scrive non ha letto – è il tempo che in quel suo fluire narrativo, come sempre accade in film del genere, incide con il suo trascorrere sulle vite dei personaggi, il tentativo della regista è quasi quello di annullare la fluidità temporale, lavorando affinché la lunga vicenda di Marco Carrera si svolga in un eterno presente che appare immobile. Un’ipotesi anche affascinante che però, come spesso accade, resta più nelle intenzioni, quasi cristallizzato nella forma esteriore, piuttosto che tema fondante di una vicenda umana, di una vita sospesa in attesa del farsi del desiderio. Tutto nasce da una casa immersa nel verde marino di una spiaggia quasi privata condivisa dalla famiglia Carrera, padre ingegnere (Sergio Albelli) appassionato di modellismo e madre architetto (Laura Morante) appassionata di foto d’ambiente, e dall’altra parte la famiglia Lattes con Luisa (Bérénice Bejo) che fin dall’adolescenza intrattiene un rapporto d’amore con Marco Carrera (Pierfrancesco Favino), ma forse anche con il fratello Giacomo (Alessandro Tedeschi). Il tempo che passa non cancella l’amore adolescenziale tra Marco e Luisa, sebbene Marco dovrà affrontare varie dure prove nella vita e scendere a compromessi nelle nuove drammatiche situazioni che si trova a vivere. Il tempo che ingeneroso trascorre porta la vecchiaia e la stanchezza.

 

 

C’è un desiderio di saga familiare in Il colibrì oltre che il sincero desiderio di raccontare la storia di un uomo quasi immobile come l’uccello del titolo, immobile a guardare la vita senza diventare mai protagonista, impantanato in una innata bontà d’animo che diventa lo strumento più frequente per giustificare ogni male della vita e delle donne che gli sono state a fianco. Marco Carrera, soprattutto è stato un uomo incapace di vivere a fondo il proprio desiderio d’amore verso Luisa sposando Marina (Kasia Smutniak) una donna senza amore per lui, consolato in ogni suo passaggio di disgrazia in disgrazia da Daniele Carradori (Nanni Moretti) psicoanalista alla fine pentito che lavora in un centro d’accoglienza per migranti e che diventerà il conforto dell’invecchiato Marco. Su questa struttura narrativa densa e articolata che raccoglie, per l’appunto, il bagaglio di una vita intera in un arco di tempo lunghissimo che arriva al futuro a noi ormai vicino, Il colibrì non sembra mai distendere le sue ali e in quell’eterno presente che l’andirivieni temporale sembra proporre con il meccanismo delle coincidenze del montaggio, il suo respiro non si concilia mai con quella specie di universalità narrativa che racconti del genere hanno la capacità segreta di fare sentire allo spettatore.

 

 

Il tempo, che dicevamo è necessariamente il vero tema dominante del film, sembra annullato nei suoi effetti da quella staticità narrativa dell’alternarsi dei vari tempi, che hanno anche lo scopo di fissare l’identità del personaggio di Marco che resta immutata senza sapere approfittare dello scorrere degli anni e, sembrerebbe, senza nulla o poco imparare dalle sue esperienze. Marco è un altro, forse il vero uomo senza qualità colui che pur raccogliendone molte (generosità, altruismo, comprensione, fedeltà ai sentimenti, onestà…), ne esprime poche in quella immobilità che lo costringe a guardare la vita piuttosto che a viverla. Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Laura Paolucci che scrivono la sceneggiatura riversano questa immobilità del personaggio nello spessore che gli attribuiscono al fine di dimostrare questo immobilismo, ma sembrano trascurare lo spessore degli altri personaggi in un film affollato. Forse questo permette a Favino di assorbire tutto su di sé un film che però, al contempo, ci dice anche troppo poco del personaggio e di questo suo silenzioso assorbire la vita, come accade con le ingiurie di Marina nella scena che segna la fine del loro rapporto. Tutto questo non favorisce l’empatia con lo spettatore che come Marco guarda lo scorrere, a volte fluido a volte in verità più faticoso, del film. Evidenti carenze recitative segnano questa fatica e sia per il fuori parte di alcuni degli attori in scena – accade per Kasia Smutniak e per Nanni Moretti o per gli eccessi di Laura Morante – o di alcune sequenze – la citata sequenza del litigio, quella al confine francese peraltro abbastanza superflua, la scelta kubrickiana della confessione dopo la partita di poker – che davvero faticano a chiudersi con un senso di soddisfazione dello sguardo e del piacere del racconto.

 

 

Il cinema italiano cade spesso in queste trappole narrative e trascurando i tratti originali di un soggetto, si abbandona al racconto di lungo respiro disperdendo forze e grinta narrativa. Anche il film di Archibugi sembra avere questo difetto genetico, immergendo il flusso delle immagini in una serie di eventi, anche drammatici, ma che si susseguono senza sosta e che non incidono se non trascurabilmente sulle vite dei personaggi, uno su tutti la drammatica fine della sorella Irene, assorbita quasi senza colpi dal protagonista se non in una breve sequenza in cui si rievoca un litigio con il fratello Giacomo, era accusato di averla lasciata sola nonostante i suoi evidenti disturbi depressivi. Il colibrì rischia così di passare davanti agli occhi senza lasciare segni, senza avere il fiato lungo del racconto empatico. Questo cinema, Il colibrì compreso, si chiude sempre di più in sé stesso senza scambio di vita con la vera vita, quella che lascia i segni trasformando le persone e le loro anime.