È tutta una questione di tempo (e di tempi) quella dell’approdo di IT sul grande schermo, a esattamente 27 anni di distanza da quella prima trasposizione televisiva di Tommy Lee Wallace che tentò di tradurre in immagini il potenziale malefico e inquietante della creatura immaginata da Stephen King nel suo lavoro più celebre. È lo stesso arco temporale che detta il ciclico risveglio della cosa che si cela dietro le fattezze del clown ballerino Pennywise, metafora orrorifica di una concezione circolare e ineludibile di un Male atavico dal sapore lovecraftiano,annidatosi nelle viscere della terra e tuttavia legato alle vicende degli uomini. E forse si esprime proprio in questo dato metatestuale, nello slittamento extradiegetico di epoche e pubblici,il senso di una rilettura ai giorni nostri di una storia tutto sommato più disturbante che spaventosa, almeno negli intenti del romanzo, ma che nel film di Andrés Muschietti si ingolfa di materiale puramente horror finendo per aderire ai meccanismi tanto ben oliati quanto ormai convenzionali di molto cinema di genere contemporaneo. Il terreno narrativo è il medesimo: siamo sempre a Derry, nel Maine, cittadina maledetta in cui periodicamente si risveglia un’entità mostruosa affamata di bambini, a cui appare sotto varie forme, tra cui quella del pagliaccio Pennywise, incubo onnipresente che i 7 ragazzini del Club dei perdenti provano a ricacciare nell’oscurità. Spostando d’epoca la storia, senza conservare la struttura a flashback del libro, il film deteriora colpevolmente l’afflato nostalgico che pervadeva il romanzo di King e i suoi personaggi, delegandolo al di là dello schermo unicamente allo spettatore, con la rievocazione delle atmosfere anni ’80, in un’ossessione vintage che si è radicalizzata da tempo nel cinema.
Quello che interessa a Muschietti, per fortuna, è almeno la rappresentazione di un percorso di formazione feroce, dove i bambini precocemente perdono la loro innocenza, non soltanto attraverso lo scontro frontale con le proprie paure, ma soprattutto con un mondo problematico e abitato dal Male.Una crescita violenta che scaraventa i 7 ragazzini di Derry nelle insidie più oscure di una società americana soltanto superficialmente idilliaca. Sta qui forse il tratto di maggior aderenza di IT al suo racconto originario: la violenza del passaggio all’età adulta accetta di rendersi più cruda rispetto alla versione televisiva, come nella mutilazione mortale del piccolo Giorgieo l’incisione a sangue che il bullo Henry fa a Bensulla pancia, come se adesso non ci fosse più tempo e necessità di ammorbidire il dolore e l’orrore. È la stessa coerenza con la quale si declinano i conflitti generazionali con le figure genitoriali, dove ancora il tempo detta le proprie coordinate, in una sorta di emancipazione scorretta dalla realtà quotidiana.La battaglia con i padri si accende nella rappresentazione più esplicita (Henry che uccide il padre), e dipinge l’idea di un’infanzia minata, impossibile da proteggere (perché nessuno la protegge, a cominciare dai genitori), men che meno nell’ingannevole tranquilla provincia americana che King ha sempre ritratto nella sua antitesi di luogo sereno. In attesa della Parte 2, che graviterà ai giorni nostri nella fase adulta dei protagonisti, e che probabilmente patirà le medesime debolezze della prima, resterà a lungo vivo il ghigno burlesco di un clown, molto più spaventevole della precedente versione, e il suo sadismo disumano che affiora anche da un tombino soltanto per riconsegnare una barchetta di carta a un bambino, in un gioco perverso dove il Male assume l’immagine più attraente e insensatamente pacifica.