La cura dal benessere, l’ossessione per la forma nell’horror di Gore Verbinski

Il ritorno di Gore Verbinski all’horror, dopo l’interessante The Ring del 2002, non poteva essere più denso e strabordante di soluzioni narrative ed estetiche, recuperando e spingendo all’estremo gli elementi stilistici che nel remake del cult di Hideo Nakata venivano dosati con oculata parsimonia, allo scopo di sottolineare atmosfere e stati d’animo in un film dai toni molto cupi. La cura dal benessere è un lavoro ben più ambizioso per Verbinski, che messi da parte i divertissement della saga dei Pirati dei Caraibi – finora il suo successo commerciale più importante –ci porta sulle Alpi svizzere per mettere in scena una storia dal forte sapore gotico,dove l’angoscia ammanta personaggi e luoghi, a cominciare dai quei primi, imponenti grattacieli newyorkesi in cui la storia prende inizio, centro di potere finanziario, ripresi nelle loro tetre sagome scure: è da lì che il giovane e ambizioso broker Lockhart (Dane DeHaan) parte alla volta della Svizzera per rintracciare Pembroke, l’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora, ritiratosi in un centro benessere e interrompendo ogni contatto col mondo. La sua firma è decisiva per concludere una fusione aziendale. A causa di un incidente, però, Lockhart si ritrova obbligato a trascorrere più tempo del previsto in questa costosa residenza, divenendone pian piano prigioniero, mentre le cure proposte dal dottor Volmer (Jason Isaacs) si fanno sempre più misteriose e pericolose.


 
Come accadeva in maniera più contenuta in The Ring, la connotazione horror di La cura dal benessere si traduce in primo luogoin un rifiuto di ogni tratto estetico realistico: non solo la fotografia del montenegrino Bojan Bazelli (lo stesso di The Ring) interviene rendendo la scena irreale e sinistra, ma anche la composizione ossessiva delle immagini, esteticamente rilevante, provoca una distorsione della percezione, specie quando enfatizza i riflessi, le superfici, le geometrie, i labirintici accessi ai passaggi bui: dall’inquadratura hitchcockiana molto angolata del treno che attraversa una galleria, fino alla serie di portali poco illuminati che conducono al centro benessere, e a tutti quei giochi di specchi che prefigurano le doppiezze e le ambiguità della trama. In questo Verbinski, con la sua regia barocca, si rivela molto abile nel delegare all’immagine la forza evocativa della storia, inseguendo un continuo stupore suggestivo. Ma questo virtuosismo si rivela una trappola per il regista e non un elemento di puntello alla parte narrativa, quando a partire dalla seconda metà del film, con il lento concatenarsi di indizi e svelamenti, la storia mostra le sue debolezze e i suoi debiti. L’impressione è quella di un’idea e una sceneggiatura (lo script è di Justin Haythe) troppo devote a temi cari al genere horror; e difatti non sono poche le suggestioni che riportano direttamente ad “altro”, dal più recente Shutter Island, passando per Il Corridoio della paura; ma soprattutto le atmosfere tipiche dei classici gotici europei (le storie maledette di nobili famiglie), riferimenti al cinema di Dario Argento (la melodia infantile, per esempio) o anche quello di Mario Bava, con il personaggio dell’inquietante Hannah, vago rimando alla ragazzina di Operazione Paura. Nel film, insomma, Verbinski ci mette un po’ di tutto, non risparmiandoci le soluzioni facili (le anguille fanno sempre senso a tutti…), un po’ di incesto e le immagini più estreme, senza filtri, di indesiderabili interventi dentali. A mancare, invece, è l’aderenza ad un discorso che resta solo suggerito, quello della crisi di una classe dirigente non più sazia di una vita agiata ed opulenta, alla continua ricerca di un benessere dal quale, paradossalmente, nel film essi stessi vogliono essere curati nell’illusionedi una vita nuova. Verbisnki svicola dalla traccia politica, preferendo una strada già battuta priva di rischi, dunque più superficiale e scontata, rimanendo vittima della sua ossessione per la forma.