La guerra, eppure l’amore. La Storia, eppure l’uomo. Le gambe, eppure il cuore. Una questione privata è un film che si divincola in se stesso, che assume la postura dello storicismo lirico dei Taviani e la spinge giù, lungo le discese ardite del partigiano Milton di Fenoglio, a perdita di gravità. Febbrile, libero e circondato, ancorato ai luoghi e svincolato dalla terra, che è già lieve sul corpo semovente del giovane guerriero in cerca il suo eterno amico Giorgio, fatto prigioniero dagli “scarafaggi” fascisti. La sensazione contraddittoria di libertà che promana da ogni immagine del film è il contrappunto di uno scenario occupato e da liberare, in questo estremamente diverso dal senso di angoscia che rendeva plasticamente tragico ogni attimo della Notte di San Lorenzo. Anche qui, come lì, le figure stanno ferme dinnanzi a se stesse, statue immaginarie di una immagine della Storia incarnata nella gente, nell’esserci di carne e sangue e paura e odio e amore delle persone. Ma la dimensione statuaria dei corpi in Una questione privata si divincola, svapora nel vento che attraversa i pensieri di Milton, la sua assenza a se stesso e agli altri nell’ossessione tutta mentale scatenata dalle parole della custode della villa. Che Fulvia e Giorgio siano sfuggiti alla dimensione ideale della loro unione a tre, all’armonia una e trina del loro essere una passione sola al di là del corpo… Il loro essere scesi dalla leggerezza dell’essere alla pesantezza dello stare, del giacere – o meglio il dubbio che ciò possa essere accaduto, suggerito dalle parole della contadina sussurrate nella villa ormai buia e deserta, viene assunto dai Taviani come matrice del dramma autentico del loro film. Che vibra in ogni immagine del dissidio interiore tra la concretezza e l’immaterialità, tra la scena tragica della Resistenza, le figure in campo coi loro costumi, le divise, i nomi di guerra e le pose drammatiche, e la scena mentale di una libertà già acquisita che si affida, con Milton, all’ossessione dell’amore idealizzato. Irrazionalità contro irrazionalità, la follia d’amore di Milton contro la follia d’odio della guerra. E i gesti filmici dei Taviani sono tutti scritti sulla leggerezza di ciò che si libera dal giogo del dovere, dalle posizioni da tenere, svincolando le loro inquadrature iconiche, la frontalità manifesta dei gesti e delle forme (corpi, alberi, edifici) nella dimensione obliqua di Milton, nel suo dubbio da dirimere, nel suo scivolare sul declivio della ragione.
Una questione privata insiste su quella separazione dell’essere dall’esistere che è forse la traccia in cui si tiene questa nuova, meravigliosa stagione del cinema di Paolo e Vittorio Taviani: lo scollamento tra la terra che si calca e lo spirito che si cavalca, tra il momento in cui si è calati e l’idealità in cui si è persi. Come in Cesare deve morire e in Meravgiglioso Boccaccio, i Taviani trovano anche nel testo di Fenoglio lo spazio di un contraddittorio tra il mondo di dentro e quello fuori, tra lo stato in cui si è calati e quello in cui si è liberati. Il dubbio di Milton è una prigione che lo libera nella sua corsa infinita al di là dello stato di guerra in cui è costretto, la sospensione della realtà nella divaricazione del suo essere tra fuga e prigionia. Milton è un disertore dello spirito, una bolla di passione che esplode disperata nel fragore dei proiettili che gli fischiano attorno, esattamente come quella dello “scarafaggio” che suona la batteria nel vento, reso dai Taviani come visione futurista della guerra che riecheggia sino alla fine. Questo è un film che sta come Milton dinnanzi alla deserta villa di Fulvia, nell’incipit di Fenoglio: col cuore “latitante dentro il suo corpo”…