Il problema di Woody Allen è che ama maledettamente la vita, l’altro problema sono i suoi anni ed essendo nato nel 1935, oggi ne ha 86. Il suo ultimo film Rifkin’s festival si fa interprete anche di questo sentimento e di molti altri in verità che, affastellati l’uno dentro o accanto all’altro, ricompongono il suo sguardo oscillante tra il malinconico e il divertito, diviso tra un desiderio di senile saggezza e una incapacità, genetica, a considerarsi ancora “vecchio” con quell’animo giovanile che i suoi 86 anni gli suggeriscono. Rifkin’s festival è innanzi tutto un’ideale prosecuzione di questo discorso, che il regista ha avviato, con interruzioni e sospensioni, almeno da Midnight in Paris, con il quale è strettamente imparentato, e al quale sia pure per ragioni differenti (ma anche simili), Un giorno di pioggia a New York era altrettanto intimamente legato. Questo non solo testimonia una ferrea volontà di Allen di parlare ancora una volta dei temi che gli stanno a cuore, lasciando tracce indelebili del proprio pensiero (mascherato sotto la genialità di un genere come la commedia che sembra digerire tutto e tutto metabolizzare), quei citati “pezzi di pensiero” sulla vita e sulla morte, sul presente e sull’amore, sul cinema e sulla felicità. C’è naturalmente da imparare dal suo argomentare, secco e contenuto (mai un film che duri più dei 95 minuti canonici) eppure, in quel tempo misurato, calibrato come una bilancia di precisione, premette, argomenta e conclude, magia della sua sintassi cinematografica, grandezza della sua precisione di linguaggio con il minimo spreco di forma e di contenuto. Non si butta niente dai film di Allen, è tutto commestibile, il suo cinema diventa manuale aperto per i giovani cineasti, i suoi film, in quella loro forma così anomala, quasi non più narrativi, ma in bilico, tra saggio e racconto, tra divertissement e trattatello filosofico, tra desiderio e impotenza, testimoniano questo straordinario equilibrio.
Un equilibrio che gli appartiene, che ha costruito nel tempo, frutto di un lavoro ininterrotto, di una progressiva mutazione del suo approccio al cinema visto come laboratorio di idee e non come esigenza narrativa. Un suo marchio di fabbrica, una sua esclusiva pertinenza, come i caratteri brevettati utilizzati per i titoli di testa e di coda dei suoi film. Per questa occasione recupera uno dei suoi attori feticcio Wallace Shawn, già suo compagno di avventura in Manhattan, protagonista in Radio Days, Ombre e nebbia e poi interprete anche in Melinda & Melinda. Un altro suo alter-ego, stavolta alle prese con il Festival di San Sebastian. Il film si apre con Mort Rifkin, il protagonista, seduto in una stanza con di fronte un altro personaggio (un amico? lo psicanalista?) e racconta la sua recente avventura. Lui è uno scrittore che sta provando a scrivere il suo “capolavoro”, ma ha anche una grande passione per il cinema, insegnato per tanti anni, che lo tenta, più forse che la scrittura per la quale si sente solo un mediocre. Proprio il cinema lo porta a San Sebastian per il festival. Sue (Gina Gershon), la sua giovane moglie, infatti, lavora per un’agenzia pubblicitaria che sponsorizza l’ultimo film di Philippe giovane e affascinante regista di culto. Presto tra Sue e Philippe (Louis Garrel) scoppierà la passione e Mort lo intuisce. Un leggero dolore al petto durante il soggiorno lo porta dalla dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya). Mort si invaghisce di lei, che per conto suo ha una complicata relazione con un pittore donnaiolo. Dopo una straordinaria giornata con la dottoressa Rojas, Mort verrà a conoscenza dei tradimenti di Sue. Il festival del cinema è finito e Mort torna all’amata New York. Cosa ne pensi di tutto questo? Chiederà Rifkin al suo muto interlocutore quando la macchina da presa ci riporterà in quella stanza prima dell’avvio dei titoli di coda. Non rende giustizia il racconto della trama per i film di Allen, tanto pretestuosa è ormai diventata, quanto incredibile possa risultare e solo comodo modulo, appositamente approntato, per metterci dentro tutto quello che Allen desidera. Come una valigia di cui ciascuno si disegna la suddivisione dello spazio sulla scorta del viaggio che deve intraprendere. Così è ormai il cinema, assolutamente etereo e trasparente, di Woody Allen, che con Rifkin ci racconta molte cose a cominciare dalla sua infinita passione per la vita.
Solo un autore così innamorato della vita può restituire agli occhi dei suoi spettatori un film così pieno di luce, con una fotografia così limpida, affidata alle cure del maestro Vittorio Storaro, così impressionista a testimoniare un’appartenenza culturale che porta il cuore e la mente di Allen sulle sponde di un’Europa così amata, insieme alla sua New York sicuramente la città degli Stati Uniti (l’unica?) con il più alto tasso di europeizzazione. Ci mette un po’ tutto in questa valigia e nel suo spazio così razionalmente suddiviso: il cinema che diventa il suo luogo d’elezione, il territorio dentro il quale vale la pena rifugiarsi per lenire i dolori della vita, i suoi scrittori, i suoi libri, la pioggia di Parigi sul Boulevard Saint Michel, l’amore per le donne, la paura per le malattie – ma il cinema gli dà la ricetta, non fumare, mangiare molta frutta e verdura, eliminare i grassi saturi e non dimenticarsi di fare la colonscopia – e per la morte Non preoccuparti, un giorno tornerò e poi penserai che è troppo presto gli dice sempre il novello Block, Christoph Waltz, sulla spiaggia in un ennesima rivisitazione del suo cinema. Ma il film lambisce ancora le sue ossessioni, i temi della sua vita interiore, la controversa relazione con le religioni, con quella ebraica che sarebbe quella di sua appartenenza, ma anche con quella cattolica (Non ho nulla contro Dio, ma è il suo fan club che mi fa paura), la sua pigrizia e il desiderio di immaginazione. È questo il festival di Rifkin, una rassegna di volti e di nomi, di immagini e sogni che lo riportano all’infanzia. È qui che il cinema diventa luogo felice del sogno, mai dell’incubo, in quell’osmosi tra vita reale e vita immaginaria/fantastica, per cui i personaggi dello schermo diventano consistenti sfumando la realtà nel sogno eterno dell’immagine che diventa il grande schermo dell’esistenza. Tutto il reale sembra andare fuori fuoco, come il protagonista in Harry a pezzi e l’immagine, invece, si materializza nella sala o nella camera da letto, si fa nitida, trasfigurando il reale, ripetendo il miracolo dello straordinario La rosa purpurea del Cairo. In questa continuità il cinema di Allen sembra diventare come quello dell’amato Fellini, un unico lungo film, unico lungo racconto fatto di connessioni e salti logici, di pause e di accelerazioni. In quella prosa che sa diventare poetica, complessa, intellettuale, ma che in fondo tradisce solo un grande amore per la vita. Rifkin’s festival diventa così qualcosa che assomiglia ad un testamento, ad un ulteriore capitolo di una altrettanto infinita biografia. Woody Allen sembra dirci: voglio essere ricordato così, voglio che si sappia che ho amato L’angelo sterminatore e 8e1/2, che ho amato Persona e Il settimo sigillo insieme a tutto Bergman, che stravedo (e sono) per Citizen Kane con quel suo slittino che resta segreto quando si rompe la bolla di vetro. Quella bolla che contiene i pensieri sconosciuti del regista, che vuole affidare solo al cinema in un insostituibile atto d’amore.
Carico di una autoironia, ma anche di un’ironia pungente verso quel cinema che presuntuosamente vuole mettere d’accordo arabi e israeliani, o pretende di fare arte con un film su Hannah Arendt proponendo la parte, con ben altre intenzioni, ad una prorompente e vistosa attrice in abito rosso. Un film assolutamente intimo, nel quale, ancora più che negli altri che lo hanno preceduto, Allen sembra rispecchiarsi, quando, per la prima volta, il suo alter-ego non è più un aitante Owen Wilson o un giovanile Timothée Chalamet, ma un anziano e non certo accattivante Wallace Shawn. Appare come una scelta identificativa, se solo si pensa che anche lui, l’Allen degli scandali, è marito di una donna molto più giovane. E allora Rifkin’s festival teniamocelo stretto con le sue luminosità improvvise, la sua San Sebastian fragrante e briosa, con i suoi personaggi femminili così esuberanti e piene di belle sorprese e quelli maschili così razionali e con l’irrazionalità del desiderio che appartiene solo a lui, al calvo, deluso ma ottimista, nonostante tutto, Rifkin che troverà di sicuro un’altra ragione per un altro viaggio e un altro amore.