La spy story che non amava: The Gray Man di Anthony e Joe Russo

Strana gente questi Russo Brothers: nel 2019 erano lì a firmare lettere contro gli spoiler su Avengers: Endgame, esaltando l’enorme lavoro svolto sul film diventato poi campione d’incassi. Tre anni dopo, invece, eccoli a inveire contro l’esperienza in sala, in favore delle piattaforme streaming che starebbero “democratizzando lo storytelling”. L’intento, nemmeno troppo celato, è ovviamente ringraziare Netflix che ha messo a disposizione il suo budget più alto di sempre per questo nuovo The Gray Man. Se i numeri sembrano dare ragione ai due fratelli cerchiobottisti, magari qualche dubbio legittimo può essere invece sollevato sull’identità che le loro “democratiche” proposte sono realmente in grado di esprimere. In effetti proprio la verità sul proprio destino è il tema portante del film, portato avanti da Six, agente della CIA che durante l’ennesima missione assassina si vede istillare il dubbio sulla liceità dei comportamenti portati avanti dal suo capo Denny Carmichael. Deciso a vederci chiaro, Six si ritrova così precipitato nel ruolo della personalità scomoda e sulle sue tracce viene posto Lloyd Hansen, contractor senza scrupoli che pur di eliminarlo non esiterà a mettere a ferro e fuoco mezzo mondo. Tratto dal romanzo omonimo di Mark Greaney, opportunamente stravolto quel tanto che basta a dare il via libera al tour-de-force tecnico prediletto dai due fratelli megalomani, The Gray Man si situa dunque nei territori spionistici del filone jamesbondiano, opportunamente riletto alla luce dei più moderni Jason Bourne o John Wick o di opere come Wanted, di Timur Bekmambetov.

 

 

Più vicino al ritmo forsennato dei secondi che alla problematicità del primo esempio, il film affastella così una serie di elaborate e lunghe scene d’azione, utili soprattutto a non lasciare allo spettatore il tempo di pensare all’improbabilità di quanto accade sul piccolo schermo. O ancor più alla fragilità – anche quella abbastanza di comodo – della presunta componente morale su cui si regge il racconto. Se infatti Six è il classico assassino governativo dal cuore buono perché molto legato all’uomo che lo ha reclutato e alla sua nipote malata, dall’altro lato abbiamo un cattivo senza scrupoli che gode del poter ignorare ogni regola. La dicotomia fra l’imperturbabile cipiglio di Ryan Gosling e l’istrionismo di un Chris Evans, che sembra aver capito come sia meglio buttarla in burletta che prendere troppo sul serio la vicenda, è forse l’elemento più azzeccato del film. Di certo più di una regia appiattita su inquadrature vorticose ma abbastanza schematiche e un gran fracasso che non riesce mai a farsi davvero cifra stilistica. Curioso dunque il fatto che mentre si inneggia alla ricerca di una vera identità, fatta di affetti tangibili e una direttrice morale forte, il film riesca sistematicamente a mancare tutti gli obiettivi, attraverso una divisione netta dei ruoli tra uomini che sparano a tutto quello che si muove e colleghe donne preoccupate solo di non vedersi affossare la carriera dall’inferno in cui si sono ritrovate coinvolte. Latitando l’empatia e la capacità di far davvero appassionare e amare i personaggi, resta quindi il dispiacere di un cast mal impiegato, con il redivivo Billy Bob Thornton e le altrimenti eccellenti Ana de Armas, Jessica Henwick (il personaggio più patetico del film) e, soprattutto, Julia Butters, straordinaria rivelazione tarantiniana di C’era una volta a Hollywood. Colorato e grottesco, ma mai davvero capace di dare pienezza a questi due estremi, The Gray Man è quindi un film grigio, che staziona nel mezzo come da titolo e segna ancora una volta lo scarto fra “cinema” e “prodotto” buono solo per riempire di contenuti il palinsesto di Netflix. Come effettivamente accadrà con i sequel e spin-off già annunciati per il prossimo futuro. Almeno da questo versante non si può dire che l’operazione non abbia una sua chiara identità.