La vita quotidiana e il processo creativo in Anton Čechov di René Féret

«Voglio unicamente scrivere cento o duecento pagine e pagare in tal modo una minima parte del debito contratto nei confronti della medicina che io ho trattato, come sapete, da mascalzone […] A parte l’Australia in passato e la Caienna ai nostri giorni, Sachalin è l’unico luogo in cui sia possibile studiare una colonizzazione compiuta da criminali […] È un inammissibile luogo di sofferenze […] L’intera Europa colta sa chi sono i responsabili: non i carcerieri, ma ognuno di noi». In questa missiva ad Aleksej Suvorin, suo facoltoso e influente editore, il giovane medico e, all’epoca, già noto scrittore Anton Čechov illustrava le ragioni del lunghissimo viaggio verso Sachalin, l’isola-prigione a 11 mila chilometri da Mosca. Ed è proprio questa esperienza uno dei momenti centrali e più riusciti di Anton Čechov, biopic e ultimo film del regista francese René Féret dedicato al celebre scrittore russo, in uscita oggi nelle sale. Sachalin è in realtà l’aborto linguistico di quella che venne probabilmente identificata dagli esploratori cinesi del XVIII secolo come l’isola di Saghalien. L’impero zarista vi confinò prigionieri (non solo politici) in condizioni di miseria e abbrutimento assolute. I carcerati e le loro famiglie vennero liberati col tempo, colonizzando quel luogo ai confini del mondo, in pieno Oceano Pacifico tra Siberia e Giappone.

 

 

La curiosità sociologica per quelle terre di esilio e disumanizzazione, triste modello per i successivi gulag staliniani, sospinse un Čechov trentenne a un faticoso viaggio di tre mesi per osservarne le condizioni e raccogliere testimonianze dirette. Il viaggio e il soggiorno a Sachalin segnano una svolta nella parabola narrativa del film, che fino a quel punto si limita a uno sguardo discreto e dimesso sull’intimità domestica della vita di Čechov e della sua famiglia. Lunghe sedute di scrittura a lume di candela, in una casa silente in cui tutti bisbigliano per non distrarre Anton (ormai di successo e fonte principale di introiti per una famiglia numerosa), si alternano alle visite mediche ai contadini piegati dalla fame e dal freddo, che accorrono numerosi alla porta del giovane medico ogni mattina. E ancora, le passeggiate, i pasti, le feste e le preghiere intorno al tavolo dei Čechov, momento di comunione quasi religiosa per i cinque figli, il padre violento e la madre remissiva.

 

 

L’ultimo titolo diretto da Féret nel 2015 prima della prematura scomparsa, adesso distribuito in Italia da Wanted Cinema, è per lo più un film di interni, di ambienti chiusi in cu il mito della scrittura come una febbre che divora anima e corpo, come una chiamata più-che-umana a cui non si può non rispondere, viene normalizzato, raffreddato attraverso il registro di una storia semplice. La fiamma dell’artista-vate viene qui vissuta dal giovane Čechov come un lavoro qualsiasi, appiattito su una dimensione domestica priva di grandi eventi, illuminazioni o passioni travolgenti. Il Čechov interpretato da Nicolas Giraud (già protagonista di Io vi troverò, Adèle e l’enigma del faraone e del Primo uomo di Amelio) è un uomo indifferente ad afflati mistici, incapace di guizzi emotivi, intento piuttosto a scrivere racconti per garantire la serenità finanziaria alla famiglia (memore della miseria ai tempi della servitù della gleba). All’inizio del film, il giovane medico ironizza persino sul successo dei suoi primi racconti, storie divertenti che scrive di getto in non più di 2-3 ore ciascuna.

 

 

La scrittura percorre il film come un’attività ordinaria, un’inezia che sottrae tempo prezioso alle visite ai contadini che affollano la casa ogni giorno. È tiepida la temperatura di questa narrazione cinematografica, che ha il merito di restituire onestà intellettuale e discrezione alla storia di un uomo raccontato nelle cronache dell’epoca spesso in termini di buonismo e generosità, mai eroici. Un uomo legato da un grande affetto per la madre e per la sorella, entrambe miti e servizievoli. Persino i momenti di abbandono a una passione clandestina con una donna sposata, che resterà a lungo amante dello scrittore (Lika, interpretata da Jenna Thiam), scorrono via con indifferenza, quasi fossero momenti di scarso interesse per Čechov, che ambisce a una moglie affinché questa possa aiutarlo a ordinare e ricopiare gli appunti dei suoi scritti. Ma anche la giovane istitutrice Anna (Marie Féret), intelligente e profonda, che Čechov conosce a Sachalin, sembra non smuovere nello scrittore nient’altro che un accenno di stima e tenerezza, confermando il ritratto di un uomo quasi ai limiti con l’apatia. Tutte le passioni vengono stemperate nel film e sono imbrigliate in una sorta di compostezza visiva, di raffinatezza formale, restituita nella ricostruzione degli interni e dei costumi d’epoca. È immediato il confronto con Mr. Turner, il film che Mike Leigh dedicò nel 2014 al celebre pittore romantico inglese, consegnandone un ritratto a tratti impietoso, di un uomo mediocre, incapace di amare i figli e che condusse una vita grigia, dimessa. Anche Anton Čechov centra l’obiettivo di restituire la concretezza, la normalità di un uomo qualsiasi, rifuggendo ogni tentazione di idealizzazione, senza il didascalismo o le citazioni insistenti dai suoi scritti che possano ricondurre con troppa facilità un’opera a un momento preciso della vita del suo creatore, come spesso accade anche nei biopic con le migliori intenzioni. Per chi cercasse un affresco della Russia dell’epoca probabilmente resterà deluso: è un film squisitamente francese, girato in Francia, recitato in francese con attori francesi.