L’abisso e il trascendente in L’ombra di Caravaggio, di Michele Placido

Se esiste un incrocio tra la pittura di Caravaggio e il procedere del cinema di Michele Placido, , è una specie di ossessione per quella fisicità, centrale oggetto di studio dei dipinti dell’artista milanese e forma espressiva per il cinema di Placido, nella sua progressiva estensione in direzione di una sempre maggiore fisicità di cui questo film diventa epicentro e baricentro, che in questo ultimo film si manifesta nella forma esasperata ed estrema fino a quell’annullamento quasi sublime del sacrificio in un annunciato cupio dissolvi. È da questa suggestione che forse bisogna partire per una ricerca che aiuti a scomporre i contenuti di questa ultima e sontuosa opera del regista pugliese. Il suo cinema ha spesso tratto dalla cronaca i suoi soggetti, dalla banda della Magliana –  attraverso il racconto di De Cataldo Romanzo criminale – al segreto fascino del male per Vallanzasca l’angelo del male, dalle vicende torbide tra segreti di Stato e malaffare per Un eroe borghese, alle riflessioni in bilico tra il politico e l’etica del lavoro in 7 minuti,o ancora, in quei sussulti di modernità che attraverso i personaggi femminili annunciavano i rivolgimenti sociali dell’epoca come accade in Il perduto amore.Ci pare che tutto questo sia tanto più vero al solo pensare che nei casi in cui il regista ha smarrito questa strada maestra che lo porta ad una sintesi di epoche, di tempi, attraverso una interpretazione della storia alla luce di una stringente contemporaneità – i suoi film non sono mai sembrati fuori tempo o fuori luogo, ma sempre fortemente caratterizzati da una attualità quasi indispensabile – e senza neppure i necessari riferimenti letterari (La scelta), il cinema di Placido ha dovuto sopportare le cadute più vistose (Ovunque sei).

 

 

Film nei quali, trascurando per un attimo lo scenario sul quale i personaggi prendono vita, restano segnati dalla fisicità di una devianza innata dal Freddo o al Dandy e fino al suo Vallanzasca o da quella femminile che caratterizza gli amori e le divisive lotte sindacali. Per questi motivi la sua incursione in un ‘600 così distante per affrontare la complessa e per questo non semplice figura del pittore, che forse più di ogni altro ha aperto le porte dell’arte figurativa ad una modernità all’epoca inattesa, ma forse intuita – visto che le sue opere hanno resistito nonostante la loro sfida blasfema ad un pervasivo potere religioso –, poteva apparire un’operazione rischiosa, agiografica e accomodante. Soprattutto per chi ha ancora negli occhi e nel ricordo la materica consistenza della biografia del pittore, che pervadeva, nella sua elezione ad estetica omossessuale, il Caravaggio di Derek Jarman, che con un impianto tutt’altro che narrativo restituiva fin dal denso cromatismo dei titoli di testa la consistenza di una biografia di questo perenne oppositore di ogni comune sentire, di questo personaggio sguaiato e sensibile, barocco e moderno, religioso e blasfemo. Un personaggio, dunque, misterioso e affascinante nel suo morboso tratto pittorico che voleva riportare la verità in quel taglio di luci e di ombre che esaltano la sua pittura, sconvolgendo ogni regola che porti ad una pacifica accettazione delle imposizioni dei poteri terreni. È questa sfida che L’ombra di Caravaggio sa accettare, entrando in questo pericoloso agone che è quella consistenza fatta di contraddizioni, di provocazioni, di forme di vita estreme dentro le quali ritrovare la congiunzione tra vita e arte e quindi il sesso come ossessione per i corpi, maschili o femminili, il combattimento, il duello, il sangue, la morte come pensiero costante durante tutta la vita. Proprio quella morte che con l’atto artistico forse più estremo e blasfemo può essere attribuita anche alla Madre di Dio, che mai conobbe artisticamente morte ma solo l’addormentamento seguito dall’Ascensione. Caravaggio fa ancora di più e dona a Maria il corpo candido di una prostituta per l’atto estremo di quella sublimazione del desiderio di vita e pensiero religioso rivolto agli ultimi e omaggio a quel corpo del desiderio che nel tratto caravaggesco trascende ogni natura diventando corpo spirituale.
 
 

 

Michele Placido coglie nella scena buia della realtà artistica del pittore la fisicità perfino imperfetta quasi segnata dagli eccessi del corpo di Scamarcio, che, con una prova convincente sa offrire quella disperazione perenne, quella febbrile inquietudine che non è solo fuoco artistico, ma fame di vita e sfida costante alla morte per una esistenza fatta di bagliori e di ferite profonde che ne hanno segnato il corpo e l’anima. Il Caravaggio di Placido sembra toccare il fondo di un abisso e lì, in quel luogo, trovare la luce della fede. I suoi demoni lo conducono per mano verso il trascendente. Dall’altra parte, in una ricostruzione empatica degli eventi volta più a trovare coincidenze e assonanze negli ultimi anni della vita del pittore, Placido racconta il personaggio che diventa l’Ombra del pittore, un servitore dello Stato Pontificio incaricato di indagare sulla vita di Caravaggio, con lo scopo di stabilire se meriti la grazia o meno dopo la sentenza di condanna a morte, da chiunque eseguibile, emessa per omicidio. L’inquisitore, un gelido Louis Garrel, qui su fronti opposti rispetto al suo Dreyfus di Polanski, è il vero angelo del male del racconto, raccogliendo su di sé non solo la spietatezza del potere, ma il gusto sadico di una vendetta dettata da un desiderio forse inappagato e da una sottile e innominabile invidia per il talento e la sfrontatezza del suo avversario. Tutto accade in questo Seicento che Placido racconta con le immagini di un cinema che sa essere sfarzoso nella personale e metabolizzata lezione felliniana che il regista adatta alla sua misura.

 


 

Con sfarzo, appunto, ma sapendo raccontare la condizione di una livida e ammorbante marginalità in quelle immagini di lusso fotografico, ma anche di plumbeo cromatismo, del rifugio per disperati, brutti, sporchi e cattivi che è stata Santa Maria della Vallicella a Roma, dove il santo Filippo Neri, un po’ medico, un po’ mendicante anche lui, accoglieva gli emarginati e che diventò la scuola umana per il pittore. Qui con un guizzo di genialità che ancora una volta ci conduce dentro una realtà contemporanea, Placido affida a Moni Ovadia il ruolo del santo benefattore, scelta che la dice lunga sul segreto intento di quelle immagini in una loro lettura orientata e mediata dal racconto. Ecco, dunque, il Caravaggio spavaldo e coraggioso di Michele Placido, affascinato dalle eresie fondanti di una nuova religiosità di Giordano Bruno – entrambi protagonisti di una immaginata opera teatrale – in un racconto che vuole essere massimalista per un secolo che non fu fatto di manierismo accademico, ma piuttosto di sangue e di profonde ferite, di corpi che raccontavano il ribollire di passioni, come quella inconsumabile della Marchesa Colonna per il sensuale Caravaggio, alla quale come sempre Isabelle Huppert sa offrire la sua segreta carica fatta di una quasi feticistica sensualità, o come quella bruciante d’odio, che segna i rapporti tra Ranuccio Tommasoni (un ormai cresciuto Brenno Placido) e lo stesso Caravaggio. Dunque, altro che l’Accademia dei pittori o l’arte del modesto e dimenticato Baglione (un compassato Vittorio Marchioni), Caravaggio detta la sua legge, quella del sangue e della passione che ci incanta ancora oggi nella sua arte sublime.